C’è un libro che racconta un pezzo di storia recente, di cui per anni nessuno ha parlato ma che da qualche tempo sta riaffiorando nella sua importanza. La memoria legata al filo rosso (Ciesse edizioni) è una riflessione legata al diario di Elio Materassi, uno dei 650.000 IMI, i militari che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 rifiutarono di combattere per la Repubblica sociale italiana a fianco dei tedeschi, e per questo vennero deportati nei lager del Terzo Reich. Ma il saggio non è solo vicenda famigliare. È testimonianza di scelte coraggiose, di valori come la memoria, il ricordo, la riconciliazione. Ed è anche strumento per avvicinare i giovani a una pagina di storia che ancora non c’è sui libri di scuola. Gli autori sono Orlando Materassi, presidente nazionale dell’Anei (Associazione nazionale ex internati nei lager nazisti), e Silvia Pascale, archeologa e storica, già autrice di numerosi volumi tra cui Il diario di Mamma Teresa. Viaggio alla ricerca del figlio internato, deceduto in un lager nazista (Ciesse edizioni).
Chi era Elio Materassi?
Orlando Materassi «Era mio padre. Un giovane, ai tempi della seconda guerra mondiale. Elio era nato nel 1922 alle Sieci di Pontassieve, in Toscana, in una famiglia convintamente antifascista. Sua madre – mia nonna – rischiò il confino per aver gridato “assassino” rivolta a Mussolini, nella piazza del paese dove tutti erano accorsi ad ascoltare per radio il discorso del duce che annunciava l’entrata in guerra il 10 giugno 1940. Elio era un ragazzo come tanti, dopo la quinta elementare aveva frequentato un corso per disegnatore meccanico a Firenze. Molto legato alla famiglia, amava la musica, il ciclismo. I valori maturati determinarono la sua decisione di dire no quando, dopo l’8 settembre, gli venne chiesto di aggregarsi alle truppe tedesche. Arrestato, fu portato in Polonia ad Hammerstein e poi in Germania nel campo di prigionia di Schwanewede dove rimase venti mesi. Costretto a un lavoro durissimo, affrontò condizioni di grande disagio e sofferenza che raccontò in un diario che io lessi, insieme a pochissimi famigliari, quando ero un bambino. Il Comune lo pubblicò la prima volta nel 1992. Ora lo abbiamo inserito ne La memoria legata al filo rosso».
Perché finora si è parlato poco degli IMI, i soldati che fecero la stessa scelta di Elio?
Orlando Materassi «Per tante ragioni. La stampa fascista, i discorsi del duce avevano portato a credere che la loro non fosse una reale prigionia ma un lavoro a supporto dell’economia militare tedesca. Le stesse lettere che gli internati inviavano ai famigliari riportavano notizie confortanti perché altrimenti non avrebbero passato la censura. Così molti considerarono gli IMI degli “imboscati” che invece di combattere avevano scelto di “starsene tranquilli” in Germania. Il rientro fu quindi traumatico e gli IMI scelsero il silenzio. A ciò si aggiungono ragioni politiche: la destra li riteneva traditori perché avevano scelto di non stare con la Repubblica sociale italiana, la sinistra li guardava con sospetto per essere stati arruolati nell’esercito regio. Lo stesso Alessandro Natta, che fu un IMI, raccontò la sua esperienza nel libro L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania che scrisse nel 1954. Ma non trovò chi glielo pubblicasse fino al 1996. E poi, una parte di responsabilità è anche di noi figli: non abbiamo mai fatto domande, non abbiamo mai chiesto. Tutto ciò ha portato all’oblio. Fino al 1977 quando venne loro assegnato il distintivo di Volontari per la Libertà e successivamente quando nei primi anni Ottanta venne loro assegnato il diploma di combattenti per la libertà d’Italia alla pari dei partigiani. Ma nei testi scolastici non c’è ancora nulla della loro storia».
Silvia Pascale «Tornarono in un’Italia da ricostruire, un Paese che per guardare avanti chiuse gli occhi su tutto quello che era inerente a un periodo buio e doloroso. Un esempio: a Elisa Spinger, scrittrice di origine ebraica superstite dell’Olocausto, i suoceri chiesero di tacere su quel numero che le era stato tatuato sul braccio ad Auschwitz. Lei ne parlerà solo quando sarà il figlio a chiedere. La storia, quella che si insegna a scuola, a lungo non ha tenuto conto delle vicende personali che invece sono fondamentali. Degli IMI ci sono moltissime testimonianze ancora nei cassetti, lettere e ricordi di figli e nipoti. Pian piano stanno venendo fuori. E sono preziose per i ragazzi di oggi. Una pagina di diario, una lettera, una fotografia, un racconto, creano ricordi che si sedimentano con lo studio».
Nasce da questo la vostra decisione di incontrare giovani e studenti? La memoria legata al filo rosso è un libro anche per loro?
Orlando Materassi «Sì. Dai libri di testo i ragazzi imparano luoghi e date, ma la storia ha bisogno di coinvolgimento. Per questo stiamo lavorando anche a un volume sulla didattica della memoria».
Silvia Pascale «Ricordo quando, nell’istituto scolastico dove lavoro a Treviso, Orlando parlò del valore della memoria raccontando la sua storia personale. I ragazzi ne furono molto colpiti. Trasmettere ricordi ed emozioni non significa sminuire la parte storica. Ma voler lasciare ai giovani un qualcosa di te».
Il filo rosso del titolo è in realtà più d’uno. Il primo filo è la volontà di far conoscere la storia di Elio Materassi come esempio di storia di tanti. Persone semplici che furono coraggiosissime nel fare la scelta del no. Sentite la responsabilità nel portare avanti questa testimonianza?
Silvia Pascale «Sì, la sentiamo forte. La memoria non è qualcosa che si insegna, la memoria è un qualcosa che si trasmette per empatia e per comune sentire. Se Elio Materassi, ma anche mamma Teresa – mia parente di cui ho scritto la storia e che in Germania andò a cercare il corpo del figlio internato militare – ci hanno lasciato questa memoria, lo hanno fatto perché hanno capito che avremmo avuto la forza di continuare a trasmetterla».
Il secondo filo rosso è quello che ha più pericoli dentro di sé. Il vostro lavoro, il vostro impegno nel raccontare una storia quasi ignorata e, insieme, nel trasmetterne memoria rischiano di infrangersi in un tempo come questo, dove ci sono segnali inquietanti nei confronti di chi è altro da sé.
Orlando Materassi «Oggi si vedono analogie preoccupanti con il passato. Viviamo in una società nella quale basta una parola sui social e tutti si distorce. Da qui la necessità di far conoscere una storia che è anche scelta di vita, di resistenza. Dobbiamo insegnare ai ragazzi a scegliere, a non rimanere indifferenti. Una consapevolezza di cui la scuola è responsabile, ma ancor più responsabili sono le famiglie. “Occorre conoscere perché la storia non si ripeta”. Ci può essere un fascismo anche oggi, pur con altre sembianze rispetto ad allora».
Silvia Pascale «Mi viene in mente una frase che disse Hitler: “Nessuno parla più del genocidio degli armeni, si dimenticheranno anche degli ebrei”. Noi non dobbiamo dimenticare. Il libro che abbiamo scritto vuol essere memoria e ricordo. La memoria è un atto razionale della mente, ma se non è alimentata va a sfumare. Il ricordo si rifà al cuore, è empatia, ascolto, coinvolgimento. Devono esserci testa e cuore per contrastare l’indifferenza verso i problemi degli altri, la rabbia che si scarica sempre contro qualcun altro. Penso anche che dai vertici del nostro Paese dovrebbero partire segnali diversi, chi ci rappresenta non può permettersi commenti rabbiosi e offese».
L’ultimo filo rosso è quello della vostra collaborazione. Perché avete deciso di scrivere insieme La memoria legata al filo rosso?
Orlando Materassi «Tra noi c’è stima ma soprattutto ci sono affinità, comunità di emozioni, di intenti, storie di famiglia diverse ma in qualche modo analoghe».
Silvia Pascale «Condividiamo obiettivi e idee su come affrontare il lavoro. “Mettere le mani” sulle vite degli altri comporta fatica mentale e emotiva: con la collaborazione e la fiducia reciproca ce la si può fare».
Il libro. Orlando Materassi, Silvia Pascale La memoria legata al filo rosso (Ciesse edizioni)