Durante il fine settimana, davanti a un lago di una cittadina universitaria del Midwest, si affollano giovani e studenti, per un attimo in pausa dai loro dottorati. Wallace, nero e gay, guarda discosto il gruppo dei suoi amici e colleghi – sono bianchi, chi etero, chi no, chi indeciso.
Da poco orfano di padre, Wallace ha preferito non condividere la notizia con loro, quasi che l’Alabama da cui proviene sia per lui un mondo a parte (e si capirà perché) e il dolore qualcosa da tenere opportunamente celato.
È questo il personaggio attraverso cui ci affacciamo sull’America dei giorni nostri nelle prime pagine di Una vita vera (Codice) per cui l’esordiente Brandon Taylor – classe 1989, chimico mancato, transitato per il famigerato Iowa Writer’s Workshop – è candidato al Booker Prize e considerato dal NYT autore di uno dei 100 notable books del 2020.
Di Wallace, cauto e distaccato per auto difesa, capiamo subito il disagio: il suo muro di diffidente discrezione lo ripara sì da inconvenienti e pregiudizi ma al contempo lo fa soffrire quasi fosse condannato in ogni istante a una sorta di esilio.
Al tavolo di un bar come al lavoro, in un laboratorio scientifico, avvertiamo la debolezza della sua identità, la rabbia implosa. Lo stanano in qualche modo Miller, lo studente etero con cui va a letto – in un balletto di riluttanze reciproche che sfoceranno più avanti in un confronto sessuale violento – oppure Dana, la ricercatrice bianca e stronza, che lo irride e forse gli sabota un esperimento – per poi comunicargli di smettere di compiangersi, perché sono le donne semmai i nuovi “froci” e i nuovi “negri”.
Serve forse aggiungere che la ricerca del biologo Wallace è indirizzata ai nematodi ossia a piccoli vermi cilindrici – questo perché controlliate voi stessi se essi fungano da correlativo oggettivo animale al comportamento degli esseri umani del romanzo: be’, fateci un pensiero, il gioco non è infatti scoperto, ma nelle pagine troverete non credo per caso molti bestie.
L’abilità di Taylor sta nell’aumentare a poco a poco il grado di immersione nella vicenda, dopo aver “registrato” Wallace, Miller e gli altri personaggi all’interno dell’orizzonte mondano del weekend. Le chiacchiere d’improvviso ci appaiono foriere di scontri, la routine una recita mal improvvisata, i riti del fine settimana vacillanti in una tempestosa mancanza di senso.
Di certo vediamo a occhio nudo l’irritante razzismo dei bianchi evoluti – quelli che invece di capir subito che lo praticano controllano frase per frase se hanno manifestato pensieri inappropriati. E non ci stupisce l’altrettanto scivolosa distinzione, che può balenare in una discussione amorosa, tra gay “monogami” e queer votati a certe app e “liberi di tradire”. È evidente come la strada verso la real life dell’introverso Wallace nasconde, dietro la facciata della civiltà, spiacevoli sorprese.
Sembra quasi che la parità per lui possa consistere solo nel privilegio di non essere trattato due volte da essere inferiore. Diffidente e rabbioso Wallace? E perché mai? Dovrebbe provare solo riconoscenza…
E però Taylor non si ferma qui. Va oltre e senza fare sconti a Wallace, il quale dovrà infine pagare lo scotto a Miller e questi a lui. Si racconteranno l’un l’altro, nella malavoglia dello spiazzamento, del rischio, del probabile disprezzo, il peggio del loro passato di paria – ci apparirà così l’Alabama di Wallace come una terra di abusi feroci, la classe operaia di cui fa parte papà Miller alla stregua di una nemesi per il figlio.
Proprio questa parte del romanzo rende evidente come la vita vera di cui dice il titolo si svolge altrove rispetto al bla bla sociale, ed è sepolta come nel pluricitato Gita al Faro di Virginia Woolf “in uno spazio sotterraneo” (Jeremy O. Harris, NYT). Sono le pagine migliori: delineano la genesi se non di un rapporto, di un contatto con la real life che all’incipit pareva essere un miraggio.
IL LIBRO Brandon Taylor, Una vita vera, traduzione di Gioia Guerzoni (Codice)