Brel, un cri si intitolava un bel documentario dedicato a quello che è stato certamente il più grande cantautore di lingua francese del ventesimo secolo – o forse di sempre.
Belga d’origine, ma parigino d’adozione, Jacques Brel ha lasciato un’eredità artistica di una decina di album registrati in studio, fra il ’54 e il ’67, un paio di album dal vivo, e poi due brevi ritorni: il primo, nel ’72, per registrare di nuovo alcune sue canzoni famose, in una sorta di “best of”; il secondo (e definitivo) per il suo album di saluto finale, nel ’77. Sarebbe morto pochi mesi dopo, il 9 ottobre del ’78, a neanche cinquant’anni.
Ci sono rimaste anche le sue interpretazioni cinematografiche, la sua seconda vita di attore, in pellicole non sempre memorabili, curiosamente commedie più che film drammatici, con un criterio di scelta quasi antitetico alla sua produzione musicale.
Brel resta però, nella memoria di chi ha avuto il dono di vederlo sul palcoscenico, un intrattenitore formidabile, un istrionesco incantatore. Ed è nella dimensione dal vivo che Brel sapeva esplodere e affascinare lo spettatore – valga come testimonianza quantomeno il dvd che riprende il suo concerto d’addio all’Olympia, nel ’66. Fu proprio in quel momento – seppur tenendo fede agli impegni presi per tutto il ’67 – che Jacques decise di averne abbastanza del palcoscenico e della canzone, e di voler abbandonare tutto, proprio tutto, mentre era al vertice della sua storia artistica e commerciale. Per dedicarsi ad altro: a una carriera di attore, ad andar per mare, a prendere il brevetto da pilota d’aereo e al desiderio di allontanarsi dalla pazza folla e dalla pressione della popolarità per rifugiarsi alle isole Marchesi, in Polinesia, allo stesso modo di Paul Gauguin. Una ribellione dettata anche dal rifiuto di vedere se stesso salire sul palco ripetitivamente, sera dopo sera, a cantare Ne me quitte pas, come un qualsiasi impiegato della canzone.
Come Dylan, come Cohen, come gli altri grandi della canzone, non c’è bisogno di comprendere a fondo i suoi testi per poter apprezzare Brel; perché – come si dice adesso – quelle canzoni “arrivano”, portate dalla voce di Brel anche quando il loro significato è oscuro o quando la lingua crea una barriera quasi insormontabile (come ad esempio in Marieke, in cui Brel riesce a rendere musicale persino quel blocco di granito che è il fiammingo). Quando Brel si esibì alla Carnegie Hall, il critico del New York Times scrisse “anche gli spettatori che non capiscono il francese hanno compreso ciò che Brel aveva da dire”. Questo perché i suoi testi, uniti all’unicità drammatica delle sue interpretazioni, creano una tale tempesta emotiva nell’ascoltatore da risultare talvolta quasi insopportabili. Brel ha sempre frugato, con una oggettività chirurgica, spesso scambiata per crudeltà, nel privato, nelle abitudini, nel conformismo dei rapporti con le donne (una serie di implacabili figure femminili – da quelle insensibili a quelle inaffidabili e infedeli, fino a quelle più esplicitamente sadiche – popola le sue canzoni) per finire con l’essere catalogato come irrimediabilmente misogino.
Ma d’altra parte, quasi contemporaneamente a Dylan, Brel rifiutava ogni definizione, tanto più quella di cantante “impegnato” – “i messaggi li lascio portare ai postini” aveva risposto a chi lo voleva crocifiggere ad un’ideologia.
Eppure, quante fra le sue canzoni hanno ispirato i nostri cantautori… Provate a fare un confronto all’americana fra Les bourgeois e I borghesi di Gaber, o fra Jef e L’amico (ancora di Gaber) – tutto il teatro-canzone gli è debitore. Provate a trovare tutte le frasi che tanti cantautori italiani della prima ora hanno ripreso: da Paoli a Guccini, da Tenco a Endrigo a De André – solo per citarne alcuni. E fuori dall’Italia? David Bowie si cimenterà in una spericolata traduzione di Amsterdam, mentre Scott Walker gli dedicherà un intero album di cover adattando i testi in inglese. Le moribond verrà adattata in inglese dal carneade Terry Jacks che, con Seasons in the sun, ne farà un numero uno in America.
Ma come sarà che amiamo così tanto Jacques Brel? Perché sa farci piangere, sa farci sorridere, o perché è stato un vero anticonformista, politicamente e ostinatamente scorretto, capace di sbeffeggiare i borghesi – lui stesso borghese – cantando fra tavolini di “bella gente” che banchetta? Perché sapeva spendersi in concerti frenetici, fulminei, prima dei quali regolarmente vomitava e nei quali si sfiniva e offriva se stesso fino alla consunzione, fino a non poterne più, il suo sudore e il suo sputo esibiti come le stimmate di un martire, le sue lunghe braccia via via a roteare nella Valse a mille temps o a sottolineare i rintocchi della vecchia pendola d’argento, quella che batte per dirci che il tempo, anche per noi, come per i vecchi, un giorno finirà?
Non basta ripetere la favola secondo cui muore giovane chi è caro agli dei… e poi, ammesso che a quasi cinquant’anni si possa dire di essere ancora giovani, non si riesce comunque a perdonare Dio per averci portato via Brel così presto. Ma d’altra parte non è mai stata la morte, per Brel, la cosa di cui preoccuparsi: “Mourir cela n’est rien/Mourir la belle affaire/Mais vieillir… oh vieillir”.
E la morte, “l’ultima femmina”, ci appare infine come la donna lasciata all’aeroporto di Orly: “La seguo ma per lei/Non posso fare niente/Perché la folla la inghiotte/Come un frutto qualunque”.
“Brel è stato un ragazzo che non ha mai sopportato di seppellire la sua giovinezza” ha scritto Eric-Emmanuel Schmitt. È forse questa la chiave per interpretare l’urlo che spacca in due Orly: “la vie ne fait pas de cadeau”, la vita non fa regali; ed è così che Jacques Brel ci ha lasciato, con il suo ultimo grido.
- Claudio Buja è giornalista ed editore musicale