Che prezzo ha il proprio nome? O meglio il mononimo, che già nella sintesi prende la forma del logo, e più che vestire allora sveste l’identità, riducendola, col conforto delle dottrine che si fanno vanto di esplorare la psiche, a monolite (e malato sia chi contiene un Dottore e un Mister, per non parlare allora dei poeti che accolgono in sé moltitudini, ma già Stevenson avvertiva che avere solo un doppio è poca roba). Vale parecchio a sentire Roy, un a tratti convincente Ewan McGregor, eterno ragazzaccio ancora in cerca di affitto che per il novanta per cento della serie da lui prodotta, e quindi tailor made per evitare problemi coi padroni di casa, fuma con posa omo d’antan, o allunga il brodo bevendo o tirando dal pillbox in ceramica (vale allora ciò che si dice di Bukowski del quale poco rimarrebbe depurato dal tracannare birre o vinaccio dai cartoni?), dato che lo ricomprerebbe, il nome suo, al doppio di quanto l’ha svenduto, un milione di dollari all’anno per non far niente, lui, e tutto ciò che può, dai cappelli al pannolone, a confondere la vena creativa con la biografia, la multinazionale che fa il mestiere suo.
Guardando Halston, può capitare di domandarsi: ma davvero una volta si attendevano le recensioni dei gazzettieri tremando come scolaretti per la propria autostima? Che tempi bizzarri!
D’altronde Roy ha talento per la moda, e pare anche avere innata la dote di carpirne i meccanismi senza aver frequentato un corso di semiotica (l’equilibrio paradossale tra la ricerca della distintività e il bisogno di socializzazione perché sia riconosciuta), molto meno il fiuto per gli affari, scambiando i mercanti per figure paterne e i treni per Bill Pullman. Certo portarsi un avvocato quando si va a discutere un contratto e trovarne uno che a posteriori ti spiega come ti hanno fregato… Intorno a sé un clan che non si capisce bene quanto sia di parassiti o di altri geni inespressi disposti a farsi vampirizzare dal pigmalione di turno in attesa di accoltellarlo brutalmente alle spalle en travesti da Bianconiglio però fotografato in biancoenero da Helmut Newton (una charmantissima Rebecca Dayan). In eterna indecisione tra l’oraziano carpe diem, condito dalla insipida minestra del genio&sregolatezza, che tira mattina allo Studio 54, e il bisogno d’essere non tanto adulato (ma davvero una volta si attendevano le recensioni dei gazzettieri tremando come scolaretti per la propria autostima, che tempi bizzarri!) quanto protetto da se stesso dai segni esteriori del successo sociale.
Alla fine sopravvive l’opera, ma è sull’uomo ahimé che si scrivono sceneggiature (perciò se scegli il nulla di Totti o Baggio mal te ne colga, rischi solo che la scena se la prendano Spalletti e il Poiana… magari riprovare con la porno epica di Fantantonio e del Bobone). Più spesso si alambicca sui loghi. E la fiction di un’auto-fiction sceneggiata da uno storyteller che a sua volta è vittima della pruderie dei tempi e della cultura del piagnisteo finisce censurata dai nani senza più rispetto per le spalle dei giganti, pure per Philip Roth.
Chi è Halston al dunque? L’omuncolo da avanspettacolo o il brand che porta il suo mononimo? L’uomo che riscopre la sua “moltezza” sottraendosi al regime del mercato in nome della libera creatività e fa lo yo-yo umano con l’autista sulla Costa Pacifica (rubacchiando il finale al George Clooney di Michael Clayton) o le sue creazioni che viaggiano nel mondo, merci sulla nave di Teseo? L’inviso Calvin Klein forse se la ride pensando alla sineddoche, senza star troppo a ragionare su chi sia la parte e chi il tutto, firma i jeans con CK e se pure resta in mutande se le vende.
- Halston è una miniserie di Ryan Murphy in cinque puntate, disponibile su Netflix. Racconta la vita dello stilista Roy Halston Frowick
- Per altri (S)visti di Gabriele Nava, qui