Parlare di migranti è difficile. Me ne accorgo non solo quando leggo le prese di posizione sciagurate di chi grida “Chiudete i porti”. Ma anche quando discuto con persone informate di cui però avverto forte la riserva nei confronti di gente disperata che approda (quando ce la fa) sulle nostre coste dopo aver affrontato viaggi che sono vere e proprie guerre.
Non è popolare parlare di accoglienza. Non fa simpatia chiedere attenzione per chi è nato in una parte del mondo che non ti dà alcuna possibilità di una vita decente.
Così, la settimana scorsa a Torino, sono andata ad ascoltare l’esperienza di Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa che per quasi 30 anni si è occupato di soccorrere chi sbarcava nell’isola. Volevo capire come facesse a tenere duro. Capire come si possa tenere duro anche quando hai (quasi) tutti contro.
«Se la vostra voce si unisce alla mia, se ognuno di noi si impegna per quello che può e tutti insieme diventiamo una grande rete, possiamo cambiare le cose, fare qualcosa di più grande di quello che faccio io, che sono solo un medico».
Solo un medico: si definisce così Pietro Bartolo che per anni, sul molo Favaloro dell’isola di Lampedusa, ha soccorso migliaia di migranti e altre migliaia ha visto recuperare morti. Oggi è europarlamentare. E a TorinoSpiritualità è salito sul palco dopo lo spettacolo tratto dal suo libro Lacrime di sale (Mondadori), nel quale narra le storie degli uomini, delle donne e dei bambini accolti e curati. Antonella Delli Gatti ne ha letto alcuni passi accompagnata dalle musiche di Rocco Di Bisceglie e dalla videoarte di Stefano Giorgi.
Bartolo ha raccontato la sua storia, le sue scelte, i suoi obiettivi.
«Tante volte mi sono chiesto: perché proprio io? Perché io devo vedere tutto ciò?». Là, su quel molo, di notte, nel silenzio assoluto, al buio «arrivavano persone. Sì, persone, non le voglio chiamare migranti. Mi occupavo di loro aiutandomi con una torcia, ultimamente con la luce del telefonino. Dicevo: ho bisogno di avere un’illuminazione, ma nessuno mi dava retta».
Così fino a quel giorno. «Il giorno in cui mi sono detto: non posso tenere tutto per me. Nei salotti televisivi si parlava di uomini, donne e bambini che nessuno aveva mai visto, mai guardato negli occhi. Ne parlavano a sproposito senza sapere nulla. Allora ho deciso di cominciare a raccontare».
A Lampedusa il medico Bartolo incontra il regista Gianfranco Rosi. «L’ho convinto, l’ho “costretto” a fare qualcosa. È nato Fuocoammare, film che ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino ed è stato candidato all’Oscar. Anch’io sono stato a Berlino e poi a Los Angeles sul tappeto rosso, come una star. Ma sono un medico, con i red carpet non c’entravo nulla, quello che per me era importante era la possibilità di far sapere al mondo cosa stava succedendo sulla mia isola, nel mio mare. Un mare bellissimo e, insieme, un mare che non perdona, che sa essere crudele. Ma più crudele è il mare dell’indifferenza. Dicono che Fuocoammare sia stato un pugno nello stomaco, ma quel pugno non ha sortito alcun effetto».
E allora Bartolo prova con i libri: «Io, che fino ad allora avevo scritto soltanto ricette, pubblico Lacrime di sale e Le stelle di Lampedusa. E poi esce un altro film, Nour, dove venivo interpretato da Sergio Castellitto. Membri di un governo di cui non voglio neppure parlare hanno definito il film “uno scorpione con la coda velenosa” perché raccontava una verità che dà fastidio».
Il medico di Lampedusa non molla. «Andavo nelle scuole, nelle università, a spiegare quello che succedeva». Infine la politica. «Perché è la politica che deve dare risposte. La buona politica, quella vera, quella fatta con passione, con onestà, con correttezza. È la politica che deve decidere se chiudere o aprire porti, se fare accordi con la Libia e la Turchia oppure no, se fare morire la gente in mare oppure salvarla. È per questo che ora sono al Parlamento europeo (Bartolo è stato eletto nel 2019 nelle file del Pd, ndr) ma anche lì trovo ostilità, indifferenza, gente che non vuole sapere. L’Europa si vuole chiudere, l’Europa si gira dall’altra parte, ma io non smetterò, io non ho mai smesso, non mi arrendo».
L’obiettivo di Pietro Bartolo è far passare un messaggio diverso da quello (purtroppo) più comune, da quella narrazione fatta di odio, di rancore, «che ci presenta queste persone come dei nemici da cui guardarsi, da cui proteggere le nostre coste». Bartolo ha visto centinaia di bambini ripescati cadaveri «centinaia, ne ho visti centinaia. Bambini chiusi nei sacchi, bambini che sono i nostri bambini. Ne ricordo uno, di 2 anni. Lo sogno. Sogno che mi accarezza e io mi sveglio urlando, come se fosse mia la colpa del suo destino e mi chiedo: faccio quello che è giusto fare? Papa Francesco ha detto, riferendosi ai morti in mare, che tutti siamo consapevoli e che è il momento della vergogna. Io mi sono vergognato a ogni naufragio, a ogni cadavere delle migliaia che ho dovuto esaminare».
Pietro Bartolo è specializzato in ostetricia e ginecologia. «Ho fatto il medico per dare la vita, e ho dovuto imparare sul campo a essere un medico legale, quello che dà un’identità ai morti, perché non restino dei numeri. Ogni volta che uscivo sfinito da quel molo i giornalisti mi chiedevano: “Dottore quanti sono?”. Mai nessuno mi ha chiesto: “Come stanno?”».
Da qui l’appello: «Se una parte del corpo sta male, tutto il corpo sta male. Se una parte dell’umanità soffre, tutta l’umanità soffre. Vi chiedo di fare qualcosa, facciamola insieme, diventiamo una rete, una voce sola per chiedere alle istituzioni di intervenire».
Da più di due anni, per il suo impegno al Parlamento europeo, Bartolo è lontano dal molo Favaloro. «Ai miei collaboratori ho sempre ricordato che il primo approccio con chi sbarca dopo aver attraversato l’inferno non deve essere quello sanitario, ma quello umano. Per far capire, con un abbraccio, un sorriso, che finalmente è arrivato in un Paese dove più nessuno gli farà del male. Che lo considererà, forse per la prima volta, un essere umano».
Qual è la parola più bella che conosce, dottor Bartolo? «Rispetto» risponde. «Rispetto per gli altri, per il diverso, per la natura, per gli animali. Rispetto è la parola più bella che possa esistere. Io credo nel rispetto. E nella solidarietà, nell’accoglienza, nei diritti umani. Valori che danno un senso alla nostra vita. Che ci permettono di andare a testa alta. E di poter dire: “Noi abbiamo fatto quello che era giusto fare”».
credit foto in apertura: Circolo dei Lettori Torino