Che Helgoland (Carlo Rovelli, Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 2020) sia di grande interesse lo ritengo indubbio perché pone in relazione i temi della fisica più avanzata con i temi della filosofia. Naturalmente quando un autore intende parlare della fisica più avanzata (quella dei quanti, ovvero di una materia difficilissima) è lecito domandarsi se ne ha i titoli. E qui la risposta, per chi non la conoscesse già, viene da un breve ma significativo elenco di quelli di Rovelli: fisico teorico, membro dell’Institut Universitaire de France e dell’Académie Internationale de Philosophie des Sciences, Rovelli è responsabile dell’Équipe de Gravité Quantique del Centre de Physique Théorique dell’Università di Aix-Marseille nonché autore di numerose e importanti pubblicazioni di tipo accademico e divulgativo.
Subito dopo, però, viene da porsi un’altra domanda e cioè se chi legge ha gli strumenti per capire di che cosa tratta l’autore almeno quando le sue pubblicazioni sono di tipo divulgativo. Ebbene: per esperienza personale dico che sì; a patto che possediamo alcune nozioni riguardo alla fisica tradizionale e le aggiorniamo con altri due libretti dello stesso autore provvidenzialmente messi in stampa dallo stesso editore prima di Helgoland: Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, Milano 2014) e L’ordine del tempo (Adelphi, Milano 2017).
Entrambi i libretti hanno avuto uno straordinario successo e sono stati tradotti in una quarantina di Paesi caratterizzandosi per lo stile scorrevole, ma mai superficiale, che ci consente l’appropriazione di un lessico non sempre familiare. Quest’appropriazione, voglio dire, rende più facile leggere Helgoland anche a chi non dispone di adeguati strumenti interpretativi. Le Sette brevi lezioni di fisica ci raccontano le tappe che scuotono la fisica dal XX secolo in poi: dalla teoria della relatività generale di Einstein fino alle questioni aperte sull’architettura del cosmo, sulle particelle elementari, sulla gravità quantistica, sulla natura del tempo e della mente. Segue L’ordine del tempo che ci spiega qualcosa della fisica che potrebbe parlare a chiunque se di questo mistero avessimo esperienza in ogni istante: il tempo. Qualcosa che nelle equazioni di Newton è presente, ma nelle equazioni fondamentali della fisica odierna sparisce, talché passato e futuro non si oppongono più e, a dileguarsi, è ciò che credevamo l’unico elemento sicuro, il presente.
Helgoland, che è il più lungo dei tre libri, ma a ben vedere non poi così tanto (meno di 250 pagine), è il nome di una spoglia isola del Mare del Nord dove un giovane Werner Heisenberg avvia nel 1925 quella che forse è da considerare la più radicale rivoluzione scientifica di ogni tempo, qualcosa di cui abbiamo già sentito parlare negli altri due libri ma che stavolta Rovelli vuole affrontare (come abbiamo anticipato all’inizio) da un punto di vista filosofico, politico, sociologico e persino antropologico. Heisenberg scopre, difatti, che le leggi naturali non conducono a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo. Osservando come gli elettroni cambino orbita continuamente, non sarà possibile conoscere esattamente e nello stesso istante il valore della posizione e della velocità come avviene nella meccanica classica. Ciò che accade è rimesso al gioco del caso e bisogna ricorrere, secondo Heisenberg, al calcolo delle probabilità con calcoli a matrice relativi a ipotesi diverse.
Questa scoperta troverà fondamento nel cosiddetto principio di indeterminazione. Dopo confronti, scontri e ricerche condotte separatamente e/o insieme a scienziati come Einstein, colui che di tutti fu padre, e quindi Bohr, Schrödinger ecc., si apriranno le frontiere della meccanica quantistica: una teoria fisica che descrive il comportamento della materia, della radiazione e le reciproche interazioni, con particolare riguardo ai fenomeni caratteristici della scala di lunghezza o di energia atomica e subatomica dove, appunto, le precedenti teorie risultavano inadeguate.
Mi fermo qui per quanto riguarda l’aspetto propriamente scientifico perché non nascondo che avrei difficoltà ad andare più avanti esponendo esempi di calcolo, formule e postulati matematici su cui io stesso dovrei approfondire. Ma quanto premesso mi pare consenta la comprensione di dove ci conduce, tenendoci per mano, Rovelli in quest’ultimo suo libro. A un certo punto, lo esplicita chiaramente: «La teoria dei quanti, io credo, è la scoperta che le proprietà di ogni cosa non sono altro che il modo in cui questa cosa influenza le altre. Esistono solo nell’interazione con altre cose. La teoria dei quanti è la teoria di come le cose si influenzano e questa è la migliore descrizione della natura di cui disponiamo oggi». Ci sono, in questa frase, una sospensione di giudizio che sta in quel “io credo” inteso come “fino a prova contraria”, e un’affermazione apodittica come “questa è la migliore descrizione della natura di cui disponiamo oggi” il che, peraltro, non è molto lontano dalla famosa frase attribuita a Socrate quando gli chiedono quanto lui certamente sapesse e risponde che ha una sola certezza: «So di non sapere».
Qui comincia una cavalcata sulla filosofia occidentale. Rovelli ricorda Platone che nel Sofista mette in bocca allo straniero di Elea questa famosa definizione relazionale di realtà: «Dico dunque che ciò che per natura può agire su altro o patire anche la minima azione da parte di altro, per insignificante che esso sia, e sia pure una volta sola, questo solo si può dire reale. Propongo dunque questa definizione dell’essere: che esso non sia che azione». E poi l’autore passa a uno dei capisaldi della filosofia indiana dando a vedere che questa concezione è universale: cita un testo, La via di mezzo. Con le stanze di Nagarjuna Madhyamaka, in cui Nāgārjuna, nel II secolo, sosteneva semplicemente che non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. «Ovviamente» spiega Rovelli «Nāgārjuna non sapeva e non poteva sapere nulla dei quanti, ma non è questo il punto. Il punto è che i filosofi ci offrono modi originali di pensare il mondo, e noi possiamo servircene se ci risultano utili. La prospettiva che offrì Nāgārjuna ci rende un po’ più facile pensare il mondo dei quanti».
La lettura di Helgoland, dunque, cerca di rendere più facile pensarlo anche a noi. Ho già scritto che Rovelli ce ne parla da un punto di vista filosofico, ma anche politico, sociologico e antropologico. Non riassumerò tutti questi aspetti. Dico solo che a un certo punto l’autore rispolvera persino una vecchia polemica alimentata da Lenin e di cui c’è traccia in Materialismo ed empiriocriticismo. Lenin accusa Ernst Mach – che ha giocato un ruolo nella nascita degli studi scientifici della percezione ed è stato al centro del dibattito filosofico e politico che porta alla Rivoluzione russa – di essere un idealista perché nega l’esistenza di un mondo reale fuori dallo spirito e riduce la realtà al contenuto della coscienza. Ma Lenin, uomo di straordinaria cultura ed efficacia politica (tanto che fa dire a Rovelli che se oggi eleggessimo politici così colti, forse cambierebbe qualcosa) invero non coglie il punto. Mach, cui deve molto lo stesso Einstein per la scoperta della teoria della relatività e per l’apertura alla teoria dei quanti, merita di più. Il suo pensiero non fu idealista e ancor meno solipsista (altro rimprovero che gli viene mosso). Non pensava, vale a dire, che non ci fosse nulla fuori dalla sua mente e, al contrario, gli interessava quel che stava là fuori: la natura, la complessità di cui siamo parte; la natura, cioè, che si presenta come un insieme di fenomeni che Mach raccomanda di studiare, costruendo sintesi e concetti che ne renderanno ragione senza postulare che siano soggiacenti alla realtà.
Qui mi fermo sperando di avervi invogliato a una non semplicissima lettura che, tuttavia, potrete trovare molto affascinante se solo la percorrerete nelle sue molteplici interrelazioni. Aggiungo solo due righe di Rovelli che, secondo me, rendono conto di una scrittura alta, di grande interesse e fascino per la materia di cui trattasi ovvero per la meccanica quantistica: «L’interconnessione delle cose, il riflettersi l’una nell’altra, splende di una luce chiara che la freddezza della meccanica settecentesca non riusciva a catturare. Anche se ci lascia esterrefatti. Anche se ci lascia un senso profondo di mistero». Ma il mistero, aggiungo io, non è più quello esoterico, di pochi illuminati, bensì quello di chi assumendo con certezza solo di non sapere, ogni giorno di più avanza con lo studio, la ricerca e (perché no) la fantasia precorritrice di ogni esperimento traendone piacere personale e sentendosi utile per l’insieme.
Credit: “Historical photograph Helgoland – Oberland 1895” by B℮n is marked with CC PDM 1.0 “File:CARLO ROVELLI.jpg” by Marco Tambara is licensed under CC BY-SA 4.0 “Bird’s eye view, Helgoland, c. 1916” by B℮n is marked with CC PDM 1.0