Cosa pensi quando vedi le immagini che arrivano dall’Afghanistan?
«Penso al tempo del ghetto di Varsavia, quando le SS rastrellavano le famiglie ebree. E penso a quante persone, che per me negli anni sono diventate “famiglia”, stanno vivendo ora in Afghanistan una situazione tragica».
Ugo Panella è un fotografo che l’Afghanistan lo conosce bene. Autore di reportages in quel Paese, da anni documenta il lavoro di Fondazione Pangea, impegnata in progetti di sostegno alle donne. La passione per la fotografia di denuncia e impegno civile lo ha portato in luoghi dove la vita è fatta di violenze, senza alcun rispetto per la dignità umana. Dagli slum di Nairobi al Bangladesh delle ragazze sfigurate con l’acido, dall’Iraq alla Palestina a tanti Paesi del mondo “altro”.
«In Afghanistan i talebani stanno facendo rastrellamenti casa per casa alla ricerca di chi negli anni ha collaborato con gli occidentali. Pangea ha smantellato l’ufficio e ha bruciato tutte le carte e i dossier relativi alle donne che ha aiutato. Il personale ora è nascosto ma non è al sicuro. Sono persone che vivono in piccoli villaggi dove c’è delazione, dove troppi conoscono il loro lavoro e il loro impegno. È una situazione terribile».
Che ricordi hai delle ragazze e delle donne impegnate con Pangea?
«Ho ricordi meravigliosi. Con Luca Lo Presti, presidente di Pangea, con Silvia Redigolo, responsabile della comunicazione, eravamo ospiti a casa loro, mangiavamo con loro, il venerdì andavamo con le loro famiglie per un picnic nei giardini di Bābur a Kabul. Un modo di stare insieme che non era solo lavoro e che nel tempo è diventato amicizia».
Le donne afghane si stavano emancipando.
«Bisogna distinguere i contesti, le città più importanti come Kabul, Mazar-i Sharif, Herat dalla realtà dei villaggi dove il controllo sociale è rimasto comunque molto ferreo. E anche da questo si capisce perché i talebani in poco tempo hanno ripreso il Paese. Dal 2001 non se ne sono mai andati, sono sempre stati radicati nel territorio e hanno avuto anche un consenso popolare. L’emancipazione della donna, quella che si poteva vedere nelle città, era mal sopportata nei villaggi dalle persone anziane. Certo, in 20 anni a Kabul ho visto nascere la prima televisione privata di sole donne; una palestra di arti marziali tutta al femminile; il primo Internet point dove le ragazze avevano sì il velo ma anche i jeans e la sigaretta. Cose impensabili prima e soprattutto adesso. I talebani hanno tentato di presentarsi con un volto buono ma quelli che controllano il territorio hanno già fatto capire di che pasta sono».
In collaborazione con Pangea hai pubblicato il libro Afghanistan a volto scoperto – La rivoluzione silenziosa delle donne. Pensi che questa rivoluzione silenziosa sia perduta per sempre?
«Non si può dire. Qualsiasi seme buttato finisce, non si sa come e non si sa quando, per germogliare. Il mondo va avanti, la civiltà pure, ora con la tecnologia tenere la gente al buio e sotto controllo è sempre più difficile. Prima le rivoluzioni le facevano le ideologie, adesso le fanno Internet e le tv satellitari. In qualsiasi parte del mondo succeda qualcosa c’è sempre qualcuno che in tempo reale te lo fa vedere. Le donne afghane che hanno vissuto una piccola primavera faranno sì che le loro figlie saranno diverse. Resta che il ritorno dei talebani non preannuncia nulla di buono, le scuole chiuderanno, gli aquiloni che erano il simbolo dell’Afghanistan smetteranno di volare, cesserà qualsiasi attività ludica, le vite saranno in pericolo: persino chi conosce una lingua straniera oggi è a rischio. Vedremo come evolverà la situazione, ma i segnali purtroppo ci sono. Penso agli spari in aeroporto, dove sono ammassate decine di migliaia di persone. Penso anche al nostro driver che è riuscito a entrare ma non così sua moglie e le sue figlie. Una tragedia comune a moltissimi».
Scrivi sul tuo sito: raccontare l’Afghanistan è come fare un viaggio tra conflitti, umanità, violenza, droga… Con le tue foto ne hai documentato il traffico.
«Due anni fa, sotto il ponte di Pule Sukhta a Kabul (foto qui sotto ndr), ho visto centinaia e centinaia di disperati drogarsi di giorno e di notte. Nascosti sotto drappi che impedivano ai vapori dell’eroina di disperdersi o accasciati per terra con le siringhe nelle vene. L’Afghanistan è il secondo narco Stato dopo la Colombia e l’80 per cento del Pil si basa sul traffico di stupefacenti».
Sei un professionista che ha sempre lavorato per dare voce a chi voce non ne ha, nei Paesi più difficili del mondo. Secondo te cosa possiamo fare perché le voci delle donne afghane non si spengano?
«È difficile dirlo. Per quanto si possa scrivere, parlare, prendere posizione, restano cose che in Afghanistan non entrano. Vedremo cosa accadrà».
- Tutte le foto di questo servizio sono di Ugo Panella
- Poche ore dopo l’intervista è arrivata la notizia che parte del personale dell’ufficio di Pangea è riuscito a imbarcarsi su un volo ed è ora in salvo in Italia. Altre ragazze impegnate con la Onlus giungeranno nei prossimi giorni. (m.t.)