Liberiamo Mimmo Zinca
da chi ha chiuso il mondo in banca
Gianfranco Manfredi
Sapevo da piccolo i loro quattro nomi come l’inizio di una formazione di calcio: Cavallero, Notarnicola, Rovoletto – pausa – Lopez. Ed erano in supposto ordine di ferocia, l’ultimo mi lasciava interdetto, Lopez era un ragazzo. Rovoletto stava bene per terzo perché mi sembrava meno pericoloso dei primi due e meno spaventoso: zero physique du rôle, come sancito dalle foto in bianco e nero de La Notte, subito catturato, pareva un grassone qualsiasi.
Nel corso del tempo questa mini formazione di calcio si è contaminata con un altro elenco, scandito in modo ritmico, come in una poesia molto concreta, quasi terra terra. I quattro più famosi banditi degli anni Sessanta si mischiano con altri personaggi – Toio, Marini, Ognibene, Petra Krause – elencati in una canzone di Gianfranco Manfredi. La connessione di questi e altri nomi e cognomi, il raccontarne la parentela è lo scopo di queste righe, in cui compare anche la lirica di un insospettabile poeta.
Ma partiamo dall’inizio. Sono passato da bambino con la mamma davanti al Banco di Napoli di Largo Zandonai a Milano dieci minuti dopo che ne era uscita col bottino la Banda Cavallero: mi trovai confuso nello sgomento dei passanti e assordato dalle sirene delle alfette – i quattro banditi torinesi in quello stesso momento stavano correndo sulla Millecento Fiat (ossimoro ma allora era così) e sparando dalle parti di Corso Sempione.
Era il 25 settembre 1967, di pomeriggio, quasi ridicolo precisare l’ora a più di mezzo secolo di distanza, ma è alle 16 che la furia si placa, dopo una corsa sinuosa e mortale tra le vie di Milano Fiera che, a ricostruirla ora, pare il percorso di una pista Policar per le automobiline elettriche – Scalextric per i più abbienti. Tre morti, dodici feriti, tra cui un bambino. Un ragazzo in macchina, un bambino ferito: io mi occupavo dei particolari che riguardavano i miei coetanei o i più vicini in età, quasi per un “interesse di categoria”.
Fumetti e film per una nuova malavita
Rivedo ancora le tavole di un fumetto dedicato a Lopez, scritto da Ricciotti Lazzero, giornalista e partigiano, disegni di Di Gennaro, apparso su Il Corriere dei Ragazzi il 26 marzo 1972. Lo risfoglio, racconta con toni moraleggianti (e quali se no?) e con l’invito a non seguire la strada del crimine la vita di Donato-Duccio (altrove troverò che il soprannome di Lopez è il meno nobile Tuccio). Gli altri banditi in gabbia sono disegnati con le facce rosse da orchi zannuti, deformate dall’odio e dal male, hanno l’aspetto di diavoli.
Nel 1968 Carlo Lizzani ha girato il film Banditi a Milano, perché sente che la rapina è più di una vicenda di balordi. La Banda Cavallero ha idee politiche anarchiche o comuniste, comunque rosse, si è formata nel 1963 in un caffé della Barriera nella Torino operaia del Fiat-Nam. Quando vengono condannati all’ergastolo, Cavallero, Notarnicola e Rovoletto (Lopez no) cantano dalla gabbia la canzone Figli dell’officina.
Storico della cronaca, Lizzani lavora a caldo sui fatti e non può possedere doti di veggenza, ma centra il punto. Il film, prima che venga battuto il ciak sui quattro, si apre come un fittizio docu con l’intervista a un poliziotto sul nuovo crimine metropolitano e a un rapinatore in distinguo tra vecchia e nuova malavita.
Lopez è il bel Ray Lovelock, Cavallero un survoltato e beffardo Gian Maria Volonté (che in una sequenza legge Il riposo de guerriero e ha in libreria Camus e Capote!), Notarnicola un Don Backy caduto nella celluloide dalle nuvole della canzonetta. A ogni intervista per gli anniversari della rapina, quasi una condanna mediatica per lui, non saprà mai mostrarsi “degno” della parte. Il film io lo vedo molto più tardi, al cineforum, perché esce vietato ai 14 anni – lo faccio scorrere adesso su YouTube e capisco perché, sbagliando, lo ricordavo in bianco e nero: Lizzani toglie volontariamente alla sua indagine il colore dello spettacolo facile.
Con Manfredi si cambia musica
Figli dell’officina è stata scritta dall’anarchico Giuseppe Raffaelli con l’aiuto dell’amico Giuseppe Del Freo; la musica deriva da un canto degli artiglieri. Lavoratore nelle cave di Carrara, nel 1921, Raffaelli è uno dei leggendari organizzatori degli Arditi del Popolo di Massa Carrara, ma la canzone riecheggerà più tardi anche tra i partigiani rossi del Nord, con le opportune correzioni di testo, e così può accadere ogni volta che viene intonata per chiamare gli uomini alla lotta. L’ho conosciuta nelle versioni di Giovanna Marini e dei Modena City Ramblers, ma l’hanno fatta anche Assalti Frontali e Banda Bassotti. Insomma:
Avanti, siam ribelli
Fieri vendicator
D’un mondo di fratelli
Di pace e di lavor
Oppure: Liberi dal lavor, secondo la modifica dell’ultimo verso di Giuseppe Joe Fallisi, comprensibilmente più adatta ai tre rapinatori.
C’è un’altra canzone, oltre a Figli dell’officina, che collego alla banda Cavallero. Sono trascorsi dieci anni, la firma Gianfranco Manfredi, filosofo, scrittore e cantautore, noto nell’ultrasinistra dei Settanta per il suo humour feroce, che sa diventare lirica della rivoluzione in Ma chi ha detto che non c’è (l’album cult è Ma non è una malattia, 1976).
Manfredi scrive Liberiamo per supportare e finanziare l’azione di Soccorso Rosso, un’organizzazione che fornisce aiuto legale ai compagni. Vi milita anche Franca Rame: e infatti Manfredi pubblica la canzone per l’etichetta La Poiana, nome registrato da Dario Fo, all’inizio del 1976 (credo) in un 45 giri diviso a metà con Questa casa non la mollerò di Ricky Gianco, pard di tante scorribande musicali – entrambi i pezzi sono eseguiti live a giugno al Festival di Parco Lambro.
Liberiamo è all’apparenza un’instant song, molto politica, fatta di lampi di rabbia e di sarcasmo. Io la sento per la prima volta al Palalido in una sera di lotta – non riesco a ricordare quando, penso poco prima del 2 aprile, data del ridicolo processo De Gregori – e la conosco dal primo verso: “Liberiamo Notarnicola”.
Siamo tutti prigionieri politici
In quei giorni, non mi interesserebbe più il ragazzo Lopez, che è uscito presto dal carcere. Mi sento grande e, un po’ ottusamente, sarei capace di guardare finalmente in viso anche i diavoli maggiori. Però quel primo verso mi blocca, mi shocka, “Liberiamo Notarnicola”, sembra troppo…
In realtà, Manfredi canta, strimpellando alla chitarra, che “siamo tutti prigionieri politici” – e fa un lungo elenco, prima concreto, con nomi e cognomi, poi ideale e larghissimo, includendo nel carcere ogni forma vivente nel mondo del Capitale, dai condomini della scala B schiavi della tv ai neonati nelle culle. Sacrosanto.
Lo siamo tutti ma proprio tutti, “prigionieri politici”, e in prima fila chi lavora “salariato” e chi va a scuola – altro che studenti con la mamma e il babbo traumatizzati dalla Dad. È una canzone fatta apposta per colpire e aizzare quell’astrazione che allora chiamiamo borghesia – o altrimenti: maggioranza silenziosa, fan di Indro Montanelli – alla stregua della struggente Ma chi ha detto che non c’è, dove già ci sono “mitra lucidati” e un auspicato “incendio di Milano”. Io però non sento il resto di Liberiamo. Sono fermo subito al primo verso, a un istintivo rifiuto privato.
La storia intanto è andata avanti dal giugno 1968, il mese dei tre ergastoli alla Banda Cavallero. In carcere Notarnicola è l’anima di rivolte per migliorare le condizioni dei detenuti, studia e scrive. Manfredi ne canta perché nei Settanta è il simbolo dei delinquenti politicizzati, votati alla lotta di classe come le BR, incontrate nelle carceri – Notarnicola, di Castellaneta, nel tarantino, ha un breve passato in Fgci e Pci, quando emigra con la madre nella Torino operaia. Comunque nel 1978 è tra i nomi indicati dalle BR per lo scambio con Aldo Moro.
Il bandito poeta e Primo Levi
Notarnicola spedirà dal carcere le sue poesie a Primo Levi – nel 1979 pubblica la raccolta Con quest’anima inquieta (Edizioni Senza Galere) – e questi gli risponde: “Belle, quasi tutte; alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema… cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara…”. Aggiunge, però: “La tua dedica mi ha toccato, e te ne ringrazio, ma non posso accettare l’equiparazione del carcere coi Lager”.
Notarnicola muore, senza aver combinato altri guai, e senza più essere la bandiera di nessuno, a Bologna il 22 marzo del 2021 – è in semilibertà dal ’95, libero dal duemila. Guardo sul web le fotografie che lo ritraggono e segno la differenza tra il demone del tempo che fu – un bell’uomo dall’aspetto volitivo, una nuvola di capelli neri, il viso dai tratti marcati, subito arruolabile per una parte in un poliziottesco – e l’ultimo Notarnicola, spettinato, disordinati barba e baffi sale e pepe, gli occhi gentili quasi dolci dietro occhiali di ferro dalla sottile montatura ovale – un pacato intellettuale, persino radical chic, come si direbbe ora, mille miglia lontano da quel Frankenstein sociale che avrebbe dovuto incarnare. Il teppista, il delinquente, che prende coscienza in cortocircuito della sua classe sfigata e dello sfruttamento cui è sottoposto. Per qualche folle momento, nella caccia al “soggetto ideale” per la rivoluzione, Notarnicola è un prototipo, meglio persino dell’allora acclamato ’“operaio massa” o del membro in realtà poco affidabile del cosiddetto ”proletariato giovanile”. Guardo tutto dalla distanza che una volta era confusione, insieme esaltazione e sgaggia.
Comunque. Cavallero se ne è già andato, nel 1997, lasciandosi alle spalle l’eco di una imprevista conversione al cattolicesimo. Rovoletto è morto nel 2015, Lopez non so.
Più tardi
l’ombra scomparve
e insieme osammo
attraversare
la linea del sole
(Sante Notarnicola, da Versi Elementari, 2020, LIRIKS)
Toio, chi era costui?
Ma torniamo al Palalido di Milano in quella turbolenta sera dei Settanta. Molti personaggi che appaiono nella canzone di Manfredi sono noti, altri sconosciuti, o se n’è persa memoria. Per esempio, tra i primi citati, c’è un misterioso Toio.
Mi risponde Manfredi: “Toio era uno dei compagni in carcere che mi era stato segnalato da Soccorso Rosso… Mi spiace di non ricordare dettagli su Toio, che forse era un soprannome affettuoso, mi ricordo che a Soccorso Rosso gli erano molto affezionati, come persona, non era un fatto di schieramento. Ai tempi mi curai di sapere bene di quali persone avrei parlato nella canzone e avevo chiesto a Soccorso Rosso proprio di non fare distinzioni di schieramento, ma di essere attenti ai singoli. Petra Krause, Marini, Notarnicola, erano casi esemplari che conoscevo già, ma per gli altri, dato che il disco lo avevo fatto per Soccorso Rosso, dovevo farmeli indicare uno per uno. Costa che ‘rubava quadri da vero artista’ era solo vagamente collocabile in un’area politica. Poi conobbi anche la sua ex moglie e pure essendo ex aveva vissuto quel periodo e concordava che fosse un’ottima persona…”
Ho raccontato qui non la vera storia – e chi mai la sa? – ma il mio “percepito” sulle gesta criminali della Banda Cavallero, fermandomi allo spavento di un bambino e al fascino pericoloso subìto da un teenager.
Non posso dire di aver mai considerato lo scempio fatto dai banditi di Figli dell’officina essendo in fondo poco o nulla coinvolto dagli storici canti anarchici od operai – cresciuto in una famiglia milanese resa prospera dal boom, ascoltavo prima le canzonette e poi il rock – ma ho ricordato la ripugnanza per quel Liberiamo che mi impedì di capire la canzone di Manfredi nel suo significato.
Al minimarket con Mimmo Zinca
Oggi, da vecchio, passo vicino al Banco di Napoli che è stato sostituito da un supermarket piccolo ed efficiente, e si apre all’angolo su rotonde, spartitraffico e sensi unici che impedirebbero a qualsiasi Millecento di partire da lì vicino, sgommando. Quando è morto Notarnicola, ho fatto un pellegrinaggio al market e ho spulciato un po’ il web, finendo sommerso in documenti carcerari d’epoca che, a occhio, sono tuttora attualissimi.
Per caso, ho appena acquistato un Tex Color, firmato da Gianfranco Manfredi per soggetto e sceneggiatura e ho visto che è appena uscito un suo nuovo romanzo di fantascienza, Ram. Le immagini permanenti (Cut-up). Lo scrittore-filosofo-songwriter si è costruito una talentuosa carriera di narratore e di fumettista, senza mai abiurare il passato. Devo ricordare titoli come Magia rossa o Cromantica (entrambi editi negli Ottanta da Feltrinelli)?
Non canta più, fatto salvo un recente featuring alla Jannacci per il rapper Auroro Borealo (Stay Hungry, Stay Foolish, Stay Home), ma nel 2017 ha dato alle stampe un libro sul 1977, inevitabilmente intitolato Ma chi ha detto che non c’è (Agenzia X) in cui ragiona a lungo su un anno da Big Bang e non solo da Bang Bang (delle pistolettate).
Il libro, ricco di documenti e di riflessioni, non è un’autobiografia, eppure è irresistibile la rievocazione in prima persona del Festival del Proletariato Giovanile di Parco Lambro, inaugurato il 26 giugno del 1976, dove tra l’altro Manfredi esegue Liberiamo come secondo pezzo e solo il nome di tanti compagni impilati nel testo gli salva lo show dai fischi o peggio – più tardi rielabora l’esperienza del Lambro in un’altra canzone, Un tranquillo festival pop di paura…
Ogni tanto sento Liberiamo, che è una sorta di canzone fantasma – non c’è su Spotify né su Apple Music, si trova semmai su YouTube postata da un benemerito Francotaxi – e ha un verso in particolare che mi incanta a ogni ascolto. Il verso è indirizzato a Mimmo Zinca, contiguo a Potere Operaio e guardato come esempio di auspicabile ibrido tra un politico e un delinquente comune: perse un piede in una rapina e scontò il suo calvario tra prigioni e ospedali (lo racconta Oreste Scalzone, che voleva farlo evadere, in ’77 e poi…, Mimesis). Il verso di Manfredi dice: “Liberiamo Mimmo Zinca da chi ha chiuso il mondo in banca”. Come no. Bellissimo. Grazie Gianfranco. Spari, sirene, applausi. Ma chi ha detto che non c’è?
Nella foto di apertura, il proletariato giovanile di Parco Lambro secondo Gabriele Basilico