C’è chi se la canta e chi la canta. I primi, Cosa Nostra li odia. I pentiti erano l’incubo di Totò Riina che a Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia e compagnia cantante (è il caso di dirlo) ha ammazzato figli, parenti e amici. I secondi invece sono quelli che cantano le terribili gesta della mafia, le storie dei boss con accenti tutt’altro che critici, anzi.
Sono i neomelodici raccontati in un originale libro, La mafia che canta (Zolfo), da Calogero Ferrara, oggi procuratore europeo e in precedenza procuratore della Repubblica di Palermo, e da Francesco Petruzzella, analista informatico presso la procura di Palermo e noto alle cronache perché fu l’estensore del famoso comunicato del Coordinamento antimafia di Palermo dove si dava del “quaquaraquà” a Leonardo Sciascia in risposta all’infausto articolo sui Professionisti dell’antimafia.
Alfonso Manzella, alias Zuccherino, Alfredo Di Martino, Daniela Montalbano sono alcuni dei nomi, sconosciuti ai più, ma popolarissimi in certi contesti, che in un qualche modo rappresentano la risposta della mafia a chi da tempo sostiene che la battaglia contro Cosa nostra e simili deve essere soprattutto culturale. Nulla che sia stato pianificato a tavolino ovviamente, ma grazie a questo collateralismo canoro mafia e camorra incidono sul target che a loro interessa. Giovani e non solo delle periferie, delle situazioni disagiate con canzoni che alimentano il mito dei capimafia e parlano di onore, sbirri e di quegli infami dei pentiti. Canzoni che contribuiscono a mantenere quell’humus culturale necessario per la sopravvivenza di questo tipo di organizzazioni criminali.
Come in economia la moneta cattiva scaccia quella buona, in questo caso la cultura bassa, o sottocultura, tiene lontano quella alta, i valori di Totò Riina vengono veicolati in maniera comprensibile rispetto a quelli di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Con una particolarità. I cantanti sono siciliani, ma per raggiungere il successo devono obbligatoriamente cantare in napoletano senza altre contaminazioni culturali. Le borgate di Palermo soprattutto, ma il successo arriva anche a Roma, sono colonizzate da canzoni partenopee, una situazione figlia dei profondi contatti fra camorra e Cosa Nostra inizialmente dovuti al contrabbando e poi cresciuti grazie anche al successo di Mario Merola, il re delle due Sicilie che, come sottolineano gli autori che in definitiva lo assolvono, si tenne comunque su un crinale scivoloso a volte non riuscendoci per quanto riguarda i testi delle sue canzoni e l’esaltazione dei criminali. Completamente diversa la situazione di Nino D’Angelo che prende nettamente le distanze da questo genere musicale.
Il neomelodico oggi passa anche o soprattutto per canzoni come Il mio amico camorrista, O’ killer, A colpa dei pentiti e Sei grande zio Totò del palermitano Alfredo Di Martino che canta (nella traduzione in italiano) “Uomini d’onore non ce ne sono più” e “dentro Cosa nostra tu sei sempre il re”.
Esaltazione allo stato puro che nasconde una dipendenza di questi cantanti dal sistema criminale. Perché spesso sono i boss che li ingaggiano e decidono se loro possono cantare in feste di paese o sagre locali. Manifestazioni in molti casi gestite direttamente dalla mafia, strumento per il controllo del territorio, che chiede il pizzo ai commercianti per le spese dell’organizzazione e poi ingaggia i cantanti che ringraziano pubblicamente. Scrivono gli autori: “E quando durante un concerto un neomelodico afferra il microfono per salutare i carceratieddi, per scagliarsi contro gli infami e i pentiti o per esaltare le gesta del malavitoso di quartiere e della gente ‘è miez ‘a vi, la piazza esplode”. Il braccio canoro di Cosa Nostra.
credit foto in apertura: “Microfono” by Sauce Babilonia is licensed under CC BY-NC 2.0