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Allonsanfàn
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Natalia Ginzburg, nella luce e nel buio della Vita immaginaria

Sono in massima parte articoli pubblicati negli anni Settanta sulla terza pagina del Corriere della Sera, taglio alto a sinistra, il posto dove luccicava il brillante spesso farlocco dell’elzeviro: contengono nella prima sezione del libro, in quella prosa semplice e ruvida che ci è famigliare, letture di libri e scrittori, nella seconda pezzi di giornalismo che potremmo definire d’opinione, componendo la terza raccolta di testi non narrativi di Natalia Ginzburg (1916-1991), Vita immaginaria, apparsa nel 1974 e mai più ristampata fino a oggi (con passaggio da Mondadori a Einaudi): trovate il libro a fine mese.

Questi trenta articoli potrebbero appartenere a una serie di “reputazioni riassestate” – in qualche caso persino presso se stessa – perché Ginzburg, con schiettezza quasi molesta per chi era allora abituato ai velluti della critica da quotidiano, canonizza per esempio Biagio Marin e i suoi versi minimi in dialetto di Grado, entra come socia nel minuscolo club di Antonio Delfini, e ne porta alla luce la vita sepolta e infelice, fa un ritratto di Tonino Guerra, simpatico outsider sorridente sotto il berrettomentre boccia il Bassani poeta a fronte di Lalla Romano poeta, e segnala gli alti e bassi di Moravia, appena uscito con Io e lui.

Le pagine di Ginzburg sono dunque divise tra i prediletti autori marginali, fisicamente ai margini – come non ricordare l’amore per Penna e Landolfi – e quelli toccati dal successo mondano, che ne ha sovente rovinato l’immagine presso se stessi e chi legge, conducendoli a licenziare opere scritte in pubblico e per un pubblico, “soddisfatte” e prive di reale interesse.

Vita immaginaria prosegue per riflessioni ampie sull’attualità di quei tempi e spunti più personali – dall’austerity all’ebraismo della scrittrice – con una viva attenzione al campo fantastico come prova il titolo e il battagliero brano dove Ginzburg affronta i nuovi mondi della fiaba: il “carino” Rodari (mai amato da lei in prosa), impaginato per di più dal guru Bruno Munari, benché “pedagogo progressista” offre ben povere suggestioni ai bambini moderni e in Senza fate e senza maghi finisce al tappeto nel confronto con le Fiabe Italiane, quelle popolari ed einaudiane di Italo Calvino.

La scrittrice famosa è protagonista nell’ombra

Natalia Ginzburg ha proseguito sul Corriere della Sera, come fosse la loro appendice, i due mestieri intrecciati e comunicanti in cui eccelleva. Quello di scrittrice e quello di – diremmo burocraticamente – alto funzionario editoriale. Scrittrice famosa, da best seller, Ginzburg è una “protagonista nell’ombra” (definizione di Gian Carlo Ferretti) dell’editoria, nonostante lavori per più di mezzo secolo tra le stelle di Einaudi; nell’ombra anche in quanto donna poiché “si pone dentro confini di marginalità, separatezza a fronte di un protagonismo tutto maschile” (Laura Di Nicola), pur se già nel 1948 riceve da Pavese una sorta di delega alla letteratura contemporanea.

Breve. Ginzburg fa parte, e in posizione di preminenza, dei nomi eccellenti di quell’élite intellettuale. Vittorini, Pavese, Calvino, che sbarca all’Einaudi nel 1950, Giulio Einaudi stesso… È utile per saperne di più il saggio di Laura Antonietti Una lettrice formidabile: Natalia Ginzburg e la casa editrice Einaudi (1).

Ma l’“ombra”, oltre che congeniale a Ginzburg, le è necessaria, al punto da ostentarla: come nota Maria Rizzitelli (su Doppiozero), “la capacità di guardare il centro come se stesse ai margini, pur essendovi in realtà immersa, è il primo dei tratti distintivi del suo stile e il primo dei segni di trasgressione al canone dominante”. I testi dedicati in Vita immaginaria a Bassani e Moravia sono la più chiara denuncia degli inconvenienti del potere e della visibilità sulla scrittura.

Ovunque ci si volti, parliamo sempre dello sguardo, sia che si tratti di nascondersi a quello degli altri, sia che entri in campo una osservazione libera e una percezione del sé. Ginzburg intanto è finalmente arrivata a definire la sua cifra di autore: diffidente verso le derive romanzesche del Novecento, avrebbe amato descrivere la realtà riflessa in uno specchio integro, rendendosi conto però ogni volta di avere fra le dita schegge di uno specchio rotto (Sandra Petrignani, nella biografia La corsara, Neri Pozza).

Proprio nei frantumi di specchio ha trovato compimento il suo realismo autobiografico. Cito dalla Nota dell’A. a Cinque romanzi brevi (Einaudi, 1964). “Così arrivai alla pura memoria: vi arrivai a passi di lupo, prendendo vie traverse (…) E non so se scriverò ancora altri libri: ma so che se scrivessi ancora dovrei ritrovarmi in quello stato di assoluta e pura libertà”.

Prima edizione

Lo sguardo femminile, viscerale, ecc. ecc.

Sto scrivendo queste due righe a discolpa del fatto che a ogni lettura di Ginzburg mi trovo un po’ spiazzato e a disagio forse perché la scrittrice torinese guarda la realtà (lo sguardo!) da un punto di vista “femminile, oscuro, viscerale, primitivo, diverso, uterino, sconosciuto all’uomo” (Cesare Garboli). Non c’è bisogno di una percezione particolarmente fine per avvertirlo, e – mi sembra – questo punto di vista accomuna la serie di articoli per il Corriere della Sera, coronati dall’inedito breve saggio Vita immaginaria.

Più facile che la mia dissintonia continua sia derivata ieri e oggi dalla costante serietà, una serietà feroce e molto adulta, di Ginzburg, forse la stessa che suscita crescente antipatia in Pavese quando nota “che essa prende per granted [per scontate], con una spontaneità anch’essa granted, troppe cose della natura e della vita” (da Il mestiere di vivere, 5 febbraio 1948).

Pavese la cui malinconia mi era una volta cara e che era giudicata non a caso da Ginzburg alla stregua di “…una tristezza come di ragazzo – la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora … si muove nel mondo arido e solitario dei sogni” (da Ritratto d’un amico ne Le piccole virtù, Einaudi, 1962). Ma voltiamo pagina.

Da una famiglia all’altra

Ci sta dentro molto nel piccolo volume Vita immaginaria, e poiché molto sta attorno a esso ognuno troverà i suoi motivi di interesse. Resta da dire del testo del titolo posto in fondo alla raccolta: una decina di pagine semplici e quasi perfette, un memorabile esercizio di autobiografia di Ginzburg sul fantasticare. «Essere soli e in ozio significava per noi costruire immediatamente luoghi immaginari, e vicende e storie, di cui eravamo i protagonisti. Luoghi e storie, li riempivamo di persone, alcune inventate, altre scelte nella nostra vita reale». Aiuta questo saggio la lettura di Ginzburg scrittrice poiché ne tematizza la poetica, il profondo intreccio fra mondo immaginario e infanzia, memoria e vita, gli elementi confluiti dieci anni prima in Lessico famigliare.

Il passo narrativo seguente a questa raccolta richiamerà nel titolo quel libro famoso, Famiglia (1977), ma ora Ginzburg affronterà situazioni assai diverse, di crisi e disgregazione, con un manierismo scheletrico che, a seconda del periodo in cui ho letto o riletto Famiglia, mi è parso spietato e veggente o un po’ ridicolo e molto antipatico…

IL LIBRO Natalia Ginzburg, Vita immaginaria (Einaudi, 1974 e 2021, a cura di Domenico Testa)

(1) Ho letto volentieri il saggio di Laura Antonietti anche perché ricostruisce – Ginzburg giudice – un pezzo della faticosa carriera letteraria di uno scrittore oggi dimenticato, Sergio Antonielli, cui infine Vittorini pubblicò La tigre viziosa nei Gettoni.

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