E poi cala sul tavolo come un due di coppe con briscola a bastoni il sesto romanzo di Jonathan Franzen. Nell’age del memoir, dell’autofiction confessionale ma non troppo, del saggio narrativo breve come un ammicco, l’americano ribadisce la muscolosa e mentale vitalità della storiona di famiglia, raccontata in terza persona con onnisciente ultravista o almeno con l’insight potenziato dalle lenti molto spesse stile nerd. Ma non sfottiamo subito un vero narratore – lo è, dite pure il contrario – perché non sarebbe à la page e nemmeno più un sodale riconoscibile della Generazione dei Grandi Post Moderni Estinti.
Dunque. Due tempi unici e ricchissimi per oltre 600 pagine ambientate nel Midwest. Si va dall’Avvento a Pasqua con gli Hildebrandt, che sono il quarantenne pastore mennonita Russ, la moglie Marion, colta e sfiorita, i quattro figli di varia età e indole, seguiti a capitoli alterni nei loro incroci – crossroads che spiegano l’uno all’altro e tutti insieme a chi scrive e a chi legge.
Franzen accompagna i suoi personaggi e li tratteggia con abilità e pazienza in un percorso di piccoli e grandi gesti, di debutti e di azzardi – baciare e “fumare”, tradire e sballare, agire secondo morale e pregare, aprirsi all’altro e partire in guerra – vissuti in un costante confronto con la religione che è la cartina al tornasole di ogni pagina.
Crossroads è il nome del gruppo d’incontro della parrocchia di Russ a New Prospect, la quale sta al limite tra una chiesa di fine anni Cinquanta e un luogo spirituale nutrito dalla nuova linfa dei Sessanta – qui siamo appena oltre, nel 1971, si parte ancora per il Vietnam e le rivoluzioni individuali o sociali hanno scosso il Grande Paese e invaso i sobborghi di Chicago.
Occhio allora, anzi orecchio. Il ministro Russ ascolta a 78 giri Crossroads originale, nella versione del bluesman Robert Johnson; il suo alterego giovane, e adorato dai più giovani, il messianico Rick Ambrose, ama la cover a 33 giri dei Cream, e per questo (sia maledetto il dio Clapton) gli ruba la platea. I tempi e i ragazzi stanno cambiando insieme all’America, mentre i “vecchi” come Russ, anche se hanno amato il Reverendo e stretto la mano a Stokely Carmichael, fanno ancora i conti con le ferite (e gli amori sfiniti) del dopoguerra.
Chiuse le Sacre Scritture, obsolescenti e pallosi i sermoni, Jesus is the answer. Rivissuto e resuscitato in una nuova e vitale religiosità mescolata con candore a brandelli di psicoterapia, è Gesù che dovrebbe aiutare i personaggi ad applicare, per usare un topos di Franzen, “le correzioni, a correggere le cose, in una perpetua illusione di credere di aver capito cosa non funziona in sé e negli altri, e di poter dire che da oggi qualcosa cambierà” (in limpido sunto tratto da Wikipedia).
Franzen sa che cosa fa, meglio di ogni suo detrattore, meglio di chi gli contesta qualche legnosità o addita le metafore talvolta macchinose con cui decritta l’animo umano. È vero che stavolta guarda più George Eliot di William Gaddis? È vero che “Crossroads recalls—at times perhaps too closely—the work of Updike, Cheever, Yates, and other 20th-century master chroniclers of middle-class white unhappiness and yearning” (Walter Kirn su Air Mail)?
È vero e forse Crossroads ci piace di più per questo. Chi odia John Updike, del resto, salvo qualche “fenomeno” nostrano? A questo Franzen ci inchiniamo e lasciamo il piacere di essere occhiuto e occhialuto mentre passiamo una notte insonne seguendo le gesta degli Hildebrandt, “montate” con un magistrale equilibrio tra avvenimenti del presente e retro illuminazioni del passato – vedi l’incantata formazione di Russ tra i silenziosi Navajo e quella maledetta di Marion in un manicomio piccolo borghese nonché il loro magistrale incastro nel crescendo drammatico delle centocinquanta pagine finali.
Crossroads conquista per il semplice fatto che è “un romanzo”, cioè “un tipo di sogno più resistente di altri”, in cui si può uscire a metà di una frase e rientrare quando ci aggrada. Così dice (pag. 563) in modo disarmante il narratore Jonathan Franzen, mentre fa acquistare in aereoporto (ma non lo fa finire) Gli anni fulgenti di Miss Brodie a un suo personaggio afflitto e bisognoso di passare il tempo. Molto snob ma giusto.
IL LIBRO Jonathan Franzen, Crossroads, traduzione di Silvia Pareschi (Einaudi). Il titolo originale e completo del volume è Crossroads: A Novel: A Key to All Mythologies, Volume 1
A margine Chi ha nostalgia del Franzen pre-Oprah Winfrey, può rileggere un capitolo a caso di Strong Motion (1992), e verificare la mutata fiducia dell’autore riguardo la possibilità di scrivere una storia reale per quanto fittizia, senza nasconderla dietro una coolness affettata; si può anche riflettere su semplicità e semplificazione formale nella letteratura americana contemporanea. Mi sembra utile nel caso ritornare a sfogliare le pagine del saggio Mr Difficult, che apparve sul New Yorker nel 2003: Franzen lo dedicò alla sua ardua lettura di Gaddis, sollevando tra l’altro una cascata di discussioni e di etichettature letterarie che svelarono ai lettori gli scrittori più postpostmoderni o addirittura i metapostmoderni…
Credit: “Jonathan Franzen” by What is in us is licensed under CC BY-NC-ND 2.0