Il fatto che se ne chieda la censura per la violenza del “gioco del calamaro” attiene al campo del ridicolo: basta proteggere i piccoli spettatori (ma davvero poi?). Conviene invece consumare The Squid Game di Hwang Dong-hyuk in versione originale, non per snobismo, ma perché il parlato contribuisce a dare il giusto ritmo al death match di Netflix e ad aggiungere significato per noi che guardiamo (spiamo?) – in sostanza dà un giro in più all’efficacia e alla teatralità survoltata del racconto.
Teatralità. Non si deve cercare del realismo balzachiano negli episodi di The Squid Game, costruiti attorno a un simbolico passatempo capitalistico/omicidale – credibile per certo alla lettera nell’universo complottista, diffidente dei Soros e dei Gates, cui attribuirebbe volentieri una maschera d’oro da belva o da suino. È meglio sintonizzarsi sulla stilizzata crudeltà della rappresentazione, che diviene una parodia beffarda di altre parodie cui siamo soliti inchinarci e prendere per reali.
The Squid Game è parodia al quadrato perché Hwang Dong-hyuk fa il verso a reality e talent show, sede dei nostri improbabili riscatti e delle nostre poco credibili epifanie di verità. Li trasfigura entrambi, impostandoli sulla modalità del gioco infantile praticato in un milieu di adulti divisi in soggetti potenti e oggetti alla canna del gas.
Di sbieco, Hwang Dong-hyuk guarda con particolare divertimento l’homo ludens di Huizinga – il gioco come fondamento della cultura e della società? Badate a quel che succede qui. Chi non sa giocare – al gioco a mosca cieca del capitale – muore, e muore male. Peggio che di fame. E sì che i padroni senza volto avevano lasciato pure il voto democratico ai concorrenti (a noi?) per decidere se smettere o continuare…
Nel serial di Netflix c’è più di una combinazione tra Hunter Games, Saw, Fear Factor e Battle Royal, e più dell’influenza dei tre registi padri del cosiddetto New Korean Cinema, Bong Joon-ho, Lee Chang-dong e Park Chan-wook – gli ingredienti sono impilati da un dotto articolo sul fattore K, firmato da Ed Park e apparso sul New Yorker. The Squid Game è più grande delle sue singole parti perché Hwang Dong-hyuk, mirando da subito dritto al trash e uscendo infine alle stelle, descrive un inferno ironico ed esagerato, sfottente e sguaiatamente sentimentale, disperato e di lucida anarchia. Il nostro inferno di protagonisti mancati e impotenti spettatori illusi da un sogno o da un’improbabile redenzione. Applausi. Si attende la seconda stagione.