È giusto boicottare un Paese per via delle sue scelte politiche? Quando ero giovane dalle mie parti non c’erano dubbi in proposito. Boicottare il Sudafrica per via dell’apartheid era ritenuta una scelta ovvia come respirare. Sempre dalle mie parti, anche il boicottaggio sportivo all’Argentina dei generali venne considerato alla stregua degli atti dovuti. Non giocare la finale di Coppa Davis, evitare così di legittimare il regime fascista, era la motivazione scontata come un black friday. Poi per fortuna andò che i nostri andarono, videro, vinsero e riportarono a casuccia l’unica insalatiera d’argento sottraendo a Videla & co. la soddisfazione di esibire un trofeo più che ambito.
Scrivo queste considerazioni spinto da una storia di libri. Anzi da due.
La prima è la storia di Sally Rooney, trentenne scrittrice irlandese “assurta a fama mondiale con il suo secondo romanzo Persone normali tradotto in quarantasei lingue e adattato dalla Bbc in una serie tivù di altrettanto successo”. Non ho letto neppure una riga della signora o signorina Rooney in ragione del fatto che, da sempre, adotto un criterio selettivo discutibile ma, vi assicuro, altrettanto funzionale: come è da perversi preferire il vino novello, così anche la narrativa va sottoposta a un ragionevole periodo di stagionatura, ché non c’è nulla di più nocivo delle mode e delle trasposizioni televisive. Per non parlare dei premi letterari.
Tornando alla signora o signorina Sally Rooney, ha fatto scalpore la sua decisione di “non concedere i diritti per la traduzione della sua terza prova narrativa, Beautiful world, where are you, all’editore israeliano che aveva pubblicato i primi due. Motivazione: l’autrice vuole appoggiare il movimento Boycott, Divestment, Sanctions (Bds), la cui campagna lavora per “mettere fine al sostegno internazionale all’oppressione del popolo palestinese da parte di Israele”. Una scelta tutta politica, come si diceva una volta, anche perché – come sanno anche i bambini di Briga alta – la più parte dei lettori israeliani (per non dire tutte le persone amanti della lettura) di lingue ne padroneggiano con sicurezza più d’una. Inevitabile per me, come credo per molti altri, interrogarsi sulla sensatezza del boicottaggio, ovvero chiedersi se è uno strumento funzionale, nel senso che serve a qualcosa; chiedersi se risponde a requisiti di equità e giustizia punire Israele; e infine chiedersi se tra tutte le forme di boicottaggio possibili e immaginabili quella delle idee abbia un qualche diritto di cittadinanza.
Riguardo al primo quesito – il boicottaggio produce realmente qualcosa – non ne ho la più pallida idea. Più che mettere in difficoltà un regime, ho l’impressione che di norma dia la stura alla più classica delle campagne nazional-patriottarde orchestrata dal partito di governo: il nemico esterno ecc. ecc. È successo e continua a succedere. Il secondo è più triste di un Buondì Motta scordato sotto il banco in prima media e rimasto lì ad ammuffire come le menzogne che ci raccontiamo da trent’anni (o sono già quaranta?) su quanto sono cattivi gli israeliani e quanto buoni i palestinesi, e come sarebbe bello esperire la democrazia di Hamas, beninteso se rispetti integralmente la sharia, non sei omosessuale e per maggior sicurezza neppure donna. Del terzo quesito non vale neppure parlarne: le idee e i libri che le veicolano sono più libere persino del pulviscolo radioattivo di Černobyl’ e nessuna frontiera e nessun muro potrà mai fermarle.
Scrivo queste considerazioni spinto da una storia di libri, ho scritto qualche riga più in su. Se la prima storia di libri muove a tristezza (la causa è insensata, l’autrice ha torto marcio ma è pur tuttavia un’egregia scrittrice ecc. ecc.), la seconda storia di libri genera disgusto, rabbia, furore. È la storia dell’opera, chiamiamola così, più vomitevole messa in circolazione dal Novecento ai giorni nostri: I protocolli dei savi anziani di Sion. Si tratta di un falso documento creato dall’Ochrana,“la polizia segreta zarista, con l’intento di diffondere l’odio verso gli ebrei nell’Impero russo. Fu realizzato nei primi anni del XX secolo nella Russia imperiale, in forma di documento segreto attribuito a una fantomatica cospirazione ebraica e massonica il cui obiettivo sarebbe impadronirsi del mondo”. Nonostante la comprovata falsità, i documenti riscossero ampio credito in ambienti antisemiti e antisionisti e “rimangono tutt’oggi la base ideologica, soprattutto tra partiti o movimenti islamisti e fondamentalisti islamici in Medio Oriente, per avvalorare la teoria della cosiddetta cospirazione ebraica. I protocolli sono considerati la prima opera della moderna letteratura complottista.”
Nel nostro Paese questa schifezza è pubblicata delle Edizioni Segno ed è acquistabile sulle piattaforme di Amazon e di Feltrinelli. La polemica dei giorni scorsi credo sia nota: la comunità ebraica di Roma ha fatto presente a Feltrinelli che forse non è il caso di proporre I protocolli senza una nota che ne evidenzi la falsità. Così, sostiene la comunità, “si favoriscono i teorici del complotto a danno dell’imprescindibile analisi storica”. Per amor di cronaca, pare che l’editore si sia scusato per la “dimenticanza”.
Conclusioni. In un Paese libero ognuno ha il diritto di pubblicare quello che vuole (o meglio: quello che può) nella legittima speranza di incontrare, come si dice in gergo, i propri lettori. Per nostra fortuna e pure per nostro merito visto che le conquiste di civiltà non te le regalano impacchettate sotto l’albero di Natale, l’indice dei libri proibiti creato nel 1559 da Papa Paolo IV e aggiornato fino alla metà del XX secolo, non esiste più. L’articolo 21 della Costituzione è piuttosto esplicito in merito, e lo stesso criterio di libertà vale anche per chi promuove, commercializza e distribuisce spazzatura sotto forma di documento cartaceo. Verrebbe da dire “è la libertà bellezza”, ma sarebbe equivoco sicché ci guardiamo anche solo dal pensarlo.
Non ho mai creduto che tutto ciò che è lecito sia necessariamente anche un bene; la questione è complicata e va ben al di là delle mie pressoché inesistenti cognizioni giuridiche. Una domanda (la quarta e ultima) tuttavia sorge spontanea: perché mai Feltrinelli (la casa editrice che dà il nome anche alla fondazione di studi storico-sociali) ha deciso di vendere spazzatura? Quale corto circuito ha messo fuori uso i sistemi di verifica e controllo di una casa editrice (“occhio, è una bufala! occhio, è una merda!”)? In attesa di una risposta che non verrà (nel nostro Paese il sistema dei media non ritiene di doversi giustificare con il lettore neppure quando pesta una merda grande come un panettone) la sola cosa che resta da fare è entrare in sciopero: da Feltrinelli non comprerò più né un libro né un caffè, la merce meglio servita nei suoi punti vendita. So che non servirà a nulla: pare che il boicottaggio abbia funzionato davvero bene solo dalle parti di Boston nel 1773. Ma anche alla quantità di liquame in circolazione c’è un limite.
Foto in apertura: La difesa della Razza in epoca fascista illustra la teoria del complotto relativa ai Protocolli dei Savi di Sion