Abbiamo visto Kilenc hónap/Nine Months/Nove mesi, di Márta Mészáros, Ungheria, 1976, in streaming su MUBI. In occasione della 34ma edizione degli European Film Awards e a riconoscimento del suo contributo al mondo del cinema, la European Film Academy le attribuisce il Premio alla Carriera per lo straordinario insieme del suo lavoro
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“Perché mi tratti come un animale?”, dice a un certo punto Juli a János, la studentessa di agraria che lavora in fabbrica all’ingegnere capo che da subito l’ha scelta, vuole vivere con lei. Sposarla. Forse per riscatto da una passata frustrazione. Juli – e qui non c’entra soltanto il rapporto sessuale – si rivela un animale troppo complicato per János.
Fuori dalla finestra c’è la fonderia di Ózd, siamo in Ungheria, nel Nord del Paese. Non si vede ma c’è. Sempre. Nelle poche inquadrature che le vengono dedicate sembra bella e maestosa – ma forse è anche perché la vediamo dall’anno 2021 e nel film siamo nei tardi anni Settanta e letteralmente in un altro mondo (sociopolitico). Dentro la stanza, dicevamo, c’è l’obiettivo imperturbabile e alieno dal sentimentalismo di Márta Mészáros (1931), e che sovente – è un suo modo di narrare – si ferma in primo piano sui visi dei personaggi. Soprattutto su quello bello e indecifrabile – perché spesso anche noi, da così lontano nel futuro, facciamo fatica a capire che cosa pensa – sul viso di Juli.
Márta Mészáros, cineasta ungherese diventata famosa ovunque per i Diari – in cui racconta la sua vita segnata dallo stalinismo – e per i lungometraggi che l’hanno vista premiata alla Berlinale e a Cannes, al contrario della coeva “scuola di Budapest”, non filma il luogo del lavoro. Lo elide dandolo per scontato. Lo rende invisibile (alla Foucault).
Mészáros si concentra in primis sulla vita delle “sue” donne, e sulla sovrastruttura nuda e semplice, dove si esplica ciò che segna la loro esistenza. In Nove Mesi, c’è un rapporto d’amore e incomprensione, in cui a ogni passo, a ogni accadimento o smottamento della storia, si conferma in atto un meccanismo che riequilibra la disimmetria di potere tra l’uomo e la donna, una disimmetria che il comunismo non ha cancellato.
Mészáros ha delegato le protagoniste di tutti i suoi film a rappresentare in apparente presa diretta l’identità e la devianza, la ribellione e l’intimità amorosa in Ungheria – soltanto con i Diari si è riferita al passato, tornando divisa tra il suo Paese e l’Urss e a sentirsi figlia e orfana dello scultore László Mészáros, vittima nel 1931 delle purghe di Stalin.
Juli – lo impariamo dai primi piani e dai suoi scarti improvvisi – è troppo libera e difficile per János, che semplicemente – al fondo del buio che alberga in lui – desidera avere una casa, quella che sta costruendo, un’automobile, una moglie che non lavora. Dopo il 1956, anche lì è arrivato il 1968, per dire dell’appeal di nuove idee nel privato e dell’affacciarsi di un’economia di mercato: Mészáros ha già incontrato l’incomunicabilità borghese quasi alla Antonioni di Holdudvar/Binding Sentiments (1969) e la gioventù beat di Szép lányok, ne sírjatok!/Don’t Cry, Pretty Girls! (1970). Non a caso Juli è il carattere femminile più consapevole tra quelli ritratti da una regista definita “femminista” per comodità semplificatoria.
E infatti. Juli è già una ragazza madre – con un rapporto quasi filiale e poco pacifico con il suo ex, un serafico professore sposato – e diventerà ancora madre alla fine del film (prima sequenza live di parto in un film dell’Est?). Ma János, incapace di accettarla – János che pure si picchia con chi la chiama “puttana” e scaccia per lei i suoi genitori – sarà sempre più lontano da Juli, nella sua brutta casa non finita, forse non le è mai stato vicino. Ma Juli, a proposito, dove sta, che cosa farà?
È interessante sapere che Lili Monori, l’attrice che interpreta la ragazza, era davvero incinta durante il film: la scena finale appartiene a un realismo quasi documentaristico. Curiosamente, invece, Jan Nowicki, l’attore polacco che impersona János, più tardi diventerà marito della regista, che era stata compagna per un decennio (1958-1968) del grande Miklós Jancsó, vecchia conoscenza temuta per i suoi interminabili pianosequenza dai cinefili di ogni latitudine.
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I cinque film dell’omaggio alla cineasta ungherese all’ultimo Bergamo Film Meeting
Holdudvar/Binding Sentiments/Sentimenti vincolanti, Ungheria, 1969, 82’
Szép lányok, ne sírjatok!/Don’t Cry, Pretty Girls!/Non piangete, belle ragazze!, Ungheria, 1970, 85’
Örökbefogadás/Adoption/Adozione, Ungheria, 1975, 87’
Kilenc hónap/Nine Months/Nove mesi, Ungheria, 1976, 90’
Ők ketten/The Two of Them/Due di loro, Ungheria, Francia, 1977, 92’