Molti anni fa, da ragazzino, divenni con cadenza quindicinale un cittadino onorario di Clerville, quel luogo forse un po’ svizzero dove gli abitanti avevano un nome italiano e un cognome che finiva con una consonante per evidenziare che fosse straniero.
Clerville, come la vicina Ghenf, sarebbe stato un posto qualsiasi, di certo noioso, se non avesse ospitato nelle colline circostanti occulte caverne trasformate in rifugi iper tecnologici (per i tempi) e laboratori criminali d’eccellenza a cui accedere, dopo aver aperto grandi portali celati nella roccia, sgasando su una nera Jaguar E-Type.
Clerville e Ghenf erano e sono la povera patria borghese di Diabolik, il famigerato eroe negativo e “fumetto per adulti” creato dalle sorelle Giussani, che oggi torna nella geografia del nostro immaginario grazie alla versione cinematografica dei Manetti Bros: “torna”, perché Diabolik, nato su carta nel 1962 negli albi delle edizioni Astorina (tutt’ora in solerte attività!) era già stato nel 1968 un film di Mario Bava il quale però si era fatto i fattacci suoi, dispiacendo alle sorelle – pessimo per loro il protagonista mono espressione John Phillip Law.
Ecco: i Manetti Bros, invece, ed è il loro primo ed evidente merito, si sono comportati da filologi e da accurati geografi nell’affrontare le gesta del cosiddetto Re del Terrore. Ambientando il tutto negli anni Sessanta, hanno girato per esempio in una Milano molto stilizzata e di design (Clerville!) e nei dintorni di una Trieste da cartolina (Ghenf!), mentre la vicenda si attiene alle tavole del fumetto L’arresto di Diabolik, fondamentale terzo volume della serie. Vi si narra infatti l’incontro – illuminato dal luccicare di un brillocco rosa e dalla lama di una grigia ghigliottina – di Diabolik e Lady Eva Kant, vedova bellissima e assai losca, e con esso l’esordio di una epocale liason d’amore e malefatte.
Molta parte della partita dei Manetti Bros si gioca nel casting e nell’adattamento degli attori alla loro scelta stilistica. Diabolik è un laconico e fosco Luca Marinelli che acquista carisma man mano che avanzano i minuti di proiezione, anche se qualche volta ha il costume nero che gli fa le pieghine e se per lunghe scene – i Manetti Bros questa volta non hanno fretta e tirano dritti per due ore e un quarto – sfiora una robotica catatonia. Giova notare che, fedelmente al prototipo disegnato, il loro Diabolik è un uomo crudele, misogino e collezionista di furti con destrezza in apparente assenza di avidità. Eva Kant è Miriam Leone, gelida e passionale, ben disegnata come nei fumetti sull’impronta irraggiungibile di Grace Kelly. Per terzo incomodo, in un’orgia di caratteristi caricaturali, si propone il riflessivo ispettore Ginko di Valerio Mastandrea con evidente parrucca e pipa feticcio.
Si dovrebbe allora capire che la vera fedeltà dei Manetti Bros al Diabolik originale risiede nell’adottare con civetteria la semplificazione narrativa, per non dire gli stilemi, del fumetto, e nel costruire, rubandone scenografie, luci e composizioni, un film sofisticato e molto pop, volutamente irreale, che sconfina nella favola nera o nella favola tout court. Non arrivo a sostenere che i Bros mirano alla bidimensionalità e al bianco e nero, però procedono scandendo la storia con geometrica lentezza neanche disegnassero quattro tavole per doppia pagina, e tra i colori rinunciano con simbolica nonchalance, meno una volta, al troppo compromettente rosso.
Un appunto finale. Ci saremmo aspettati una piccola forzatura interpretativa del testo base, ovvero una più vivace contrapposizione tra la borghesia da boom economico, codina e conformista di Clerville e Ghenf – di cui in fondo facevo parte anch’io in quanto piccolo consumatore di Diabolik -, e l’anarchica ferocia del Re del Terrore – una chiave di lettura tutta da esplicitare, ma aleggiante sulle pagine dell’originale. I Manetti Bros, però, qui non hanno schiacciato l’acceleratore della loro Jaguar E-Type. Forse è un peccato.
Per la geografia di Diabolik, qui