Ho sempre temuto il pensiero magico. Sentimento che nel tempo si è trasformato in insofferenza. Un conto è leggere Il ramo d’oro di Frazer o i lavori di Malinowski sulle credenze soprannaturali nelle società primitive, un altro è imbattersi in “pensieri magici” nella quotidianità di un mondo che ha la presunzione di ritenersi moderno ed evoluto. In proposito mi pare illuminante la tesi di Sigmund Freud: il pensiero magico dell’uomo primitivo è simile a quello del bambino, entrambi ritengono che la realtà sia influenzabile secondo i propri desideri; magia intesa come onnipotenza del pensiero, caratteristica che secondo Freud accomuna bambini, animisti e adulti nevrotici. Naturalmente un conto sono le invenzioni dell’infanzia (Walter Benjamin ce ne offre una melanconica testimonianza nella raccolta di racconti autobiografici Infanzia berlinese), un altro le follie di chi pretende di mutare la realtà a proprio piacimento con la forza del pensiero.
Per queste e molte altre fondate ragioni mai avrei pensato che un giorno avrei acquistato e letto (le due cose non sempre coincidono) L’anno del pensiero magico. Ancora una volta l’ingaggio ha avuto origine da una foto. L’autrice Joan Didion ritratta in età avanzata, magra al punto da apparire in stato di cachessia. Nonostante l’aspetto spettrale, la compostezza della postura, l’eleganza del volto e un certo non so che di rassegnazione nello sguardo che pure non annuncia la resa, mi avevano reso impossibile passare oltre. Non avevo la più pallida idea di chi fosse Joan Didion né di quanto fosse provata da una malattia invalidante. Una veloce ricerca mi restituiva il sembiante di una donna di bellezza europea in salsa californiana. La foto che più mi colpì la ritrae davanti alla sua auto sportiva che dicono guidasse con consumata esperienza; parrebbe un’auto più adatta a un tipaccio tipo Steve McQueen piuttosto che a una signora dall’aria spaurita e timida, la quale tuttavia come avrei ben presto scoperto era dotata di un carattere di ferro. Ma non era la biografia a interessarmi e neppure il fatto che Didion fosse una protagonista del new journalism, lo stile di scrittura caratterizzato da commistione tra letteratura e giornalismo in voga negli anni Sessanta e Settanta negli Stati Uniti; il trigger, come dicono i nerdazzi, sta tutto nel tema di un racconto di morte e rinascita.
Era da qualche settimana che giravo intorno all’idea di ragionare per iscritto su un testo anomalo e perfetto come L’anno del pensiero magico. Joan Didion è morta il giorno in cui ho iniziato a scrivere questa madeleine. Beninteso, nessun “pensiero magico”: aveva 87 anni e la morte l’ha liberata da una serie di malattie dolorose quanto invalidanti. Gli inevitabili coccodrilli, la più parte trasudanti la trasandatezza del giornalismo dei giorni di festa, dedicano solo le ultime righe a quello che fu il suo più grande successo: saggio, memoir, indagine giornalistica sulla solitudine, diario del dolore o tutte queste cose insieme? “La forma è la carne del pensiero, come il pensiero è l’anima della vita” è un aforisma attribuito a Gustave Flaubert. Ed è la forma che Joan Didion dà al suo pensiero ciò che rende strabiliante questo lungo racconto indefinibile. La catastrofe che colpisce Didion è la perdita del marito e della figlia a distanza di pochi mesi. Perdite tragicamente inattese e imprevedibili. “Ho cercato di catturare l’ossessione di ritornare su quegli avvenimenti ripetutamente sperando di cambiare il finale” ha dichiarato l’autrice. Ma il finale, come sa chiunque non sia animista, bambino o inguaribilmente nevrotico, non può cambiare. Non cambia il destino di Edipo, né quello del vecchio re Lear, e non muterà neppure il nostro per quanto grande sia la nostra dose di onnipotenza.
Didion impiega 236 pagine per raccontare un anno trascorso nel dolore e nella speranza, nella caduta e nella rinascita. Non so cosa significhi “scrittura al femminile”, non ne ho contezza anche se ne ho sentito parlare: per ciò che mi riguarda To the Lighthouse (di Virginia Woolf) avrebbe potuto averlo scritto un uomo e ho la fondata certezza che anche Erich Auerbach – colui che ne ha svelato i meccanismi narrativi in Mimesis – la pensi così. Se il talento esula dai cromosomi non così la qualità emotiva, questa sì meravigliosamente femminile. Con quanto coraggio, trasparenza e fiducia nella forza delle parole Joan Didion mette in mostra illusioni e paure, speranze e sgomento! È la forza della scrittura che trasforma un fatto riservato e personale come la perdita dei propri cari in un evento che riguarda tutti gli umani, i soli esseri consapevoli di dover morire. Quando il pensiero magico onnipotente abbandona la sua presa mortifera e ci lascia finalmente liberi di vivere nel presente.