Tra la porta del carcere che si apre e la porta del carcere che si chiude, vive la vicenda di Un eroe, dove, nell’affannosa ricerca di equilibrio dei suoi protagonisti, in bilico tra verità e menzogna, si esalta la capacità drammaturgica di Asghar Farhadi, regista capace di essere realista nel raccontare un apologo e abilmente teatrale nel servire una storia che può essere vera. Nell’Iran dove è tornato a girare, dopo le sortite in terra di Francia e Spagna, il suo nono lungometraggio – premio speciale della giuria a Cannes e in corsa agli Oscar per il film straniero – trova l’occasione anche per un lucido e limpido discorso politico.
Siamo nell’Iran sudorientale, a Shiraz, centro culturale e botanico. Il trentenne Rahim, in prigione a causa di un debito che non è riuscito a ripagare, approfitta di un permesso di due giorni per convincere il suo creditore a ritirare la denuncia. È entrato per caso in possesso di una borsa piena di monete d’oro, trovata dalla donna che vuole sposare, ma d’impulso decide di non usare quel denaro “sporco”, e di restituirlo alla legittima proprietaria. Il fatto diviene noto e Rahim si trasforma quasi suo malgrado nell’eroe del giorno, l’eroe utile perché ognuno si faccia vanto del suo gesto, ma… La serie di “ma”, che si innesca un attimo dopo che tutti hanno fatto la foto ricordo sul giornale, è un precipizio senza fine per Rahim, una caduta coinvolgente in un gioco feroce primattori e comparse che gli stanno attorno, mentre i social network (pure in un Paese fondamentalista!) fanno la loro. Dilemmi da filosofia morale e usi propagandistici del beau geste si intrecciano inestricabilmente, tra misere serate di beneficenza e falliti colloqui d’assunzione, fino a mettere in pericolo l’unica cosa su cui Rahim non accetta di negoziare, il rapporto con il figlio decenne, afflitto da grave balbuzie. Fanno da fil rouge alla storia di Un eroe il tema del denaro – pensato, agognato, accaparrato, donato, rifiutato e in ultima istanza maledetto – e quello della famiglia, l’unica cellula per quanto impotente di umanità e riscatto.
Non adatto agli ansiosi, questa sorta di thriller morale di cui Farhadi ha il copyright non si serve mai dell’ellissi. Ogni scena si svolge a favore di una telecamera che non stacca prima di aver completato il suo diligente mestiere. La grande forza del cinema dì Fahradi è quella di dire tutto e di non distogliere mai lo sguardo, toccando a un tempo gli opposti: la mancanza di pietà, che gli deriva dal coraggio dell’onestà costi quel che costi, si congiunge alla pietas provata per i suoi poveri e umanissimi “eroi”. È invece a parte l’uso che il regista iraniano fa qui degli schermi della tv a colori e di quelli dei telefonini con uso di social, a simbolo dell’accresciuta visuale dello spettatore moderno, che crede di veder tutto e di più e invece, forse, vede meno.
La polemica con i fondamentalisti
Prodotto da Memento Production e Asghar Farhadi Production, distribuito in Italia da Lucky Red (dal 3 gennaio 2022), il film è interpretato dagli eccellenti Amir Jadidi, Mohsen Tanabandeh, Fereshteh Sadrorafaii. È anche sceneggiatore Farhadi che, a 49 anni, vanta un cv spettacolare: è stato premiato con l’Orso d’argento al festival di Berlino per About Elly e ha vinto due premi Oscar per Una separazione e Il cliente. Il terzo Oscar potrebbe essere “snobbato”. Una dichiarazione rilasciata all’Ansa e diffusa il 21 novembre ha riportato direttamente Fahradi nel cuore del suo Paese. Un gruppo di fondamentalisti lo accusa di aver preso posizioni vaghe sulla situazione politica dell’Iran, dispiacendosi che questo film lo rappresenti agli Oscar. Farhadi, che dal canto suo ha criticato l’uccisione e l’arresto di migliaia di manifestanti avvenuti durante le proteste del 2017 e del 2019 e l’attuale situazione delle donne nel Paese, ribatte: “Se la presentazione del mio film da parte dell’Iran agli Oscar porta alla conclusione che sono sotto la tua bandiera, dichiaro esplicitamente che non ho problemi a revocare questa decisione”. Gli eroi come gli artisti sanno bene che cosa è la coerenza.