So che quando racconto queste storie della “Prima Repubblica” i miei giovani lettori faticano a crederci, ma c’è stato un tempo in cui non era così difficile eleggere l’inquilino del Quirinale. Il candidato doveva essere un uomo – era un tempo in cui non c’era dubbio su questo – e doveva essere piuttosto anziano. Doveva avere una lunga esperienza parlamentare e un’ancora più lunga militanza politica. E, alternativamente, doveva essere o democristiano o di un altro partito. Certo, anche fissati questi criteri così rigorosi, poteva essere difficoltoso trovare il candidato giusto, perché c’erano più o meno legittime ambizioni, c’erano manifeste e inconfessabili simpatie e antipatie personali, c’erano equilibri da rispettare, ma al netto dei bizantinismi di quella classe politica, riuscivano senza troppi sforzi a eleggere un Presidente. Una volta eletto, il Presidente non aveva molto da fare, perché c’erano i partiti ed erano i partiti che decidevano chi doveva fare il Ministro della Marina mercantile e il sottosegretario all’Agricoltura, e soprattutto erano i partiti che decidevano quando era arrivato il momento di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni.
Il vecchio notabile a cui era stato affidato l’incarico di Presidente della Repubblica aveva il compito di vigilare che facessero tutto questo rispettando le regole, quelle scritte nella Costituzione – che peraltro lui stesso aveva contribuito a scrivere – e soprattutto quelle non scritte, che definivano lo svolgersi della vita istituzionale italiana. Fatto ciò, al Presidente non si chiedeva null’altro che rappresentare l’Italia. E bisogna dire che i primi sette Presidenti lo hanno fatto con indubbia efficacia, seppure con stili molto diversi l’uno dall’altro. C’erano gli italiani come Gronchi e Pertini. Ce n’erano – indubbiamente meno – perfino come Einaudi, anche se erano molti di più quelli come Leone, quelli che tenevano famiglia e facevano le corna. Io li ho conosciuti questi italiani e credo che anche voi abbiate avuto la mia stessa fortuna. Perché quei sette uomini erano cresciuti dentro quelle grandi agenzie formative che erano i partiti, in cui veniva formata la stragrande maggioranza degli italiani. Io sono cresciuto in un mondo in cui le persone si definivano per quello che votavano, nel bene e nel male, perché la politica era un tratto distintivo della società. E quelle sette persone, nei loro pregi come nei loro rimarchevoli difetti, a volte davvero notevoli, sono riusciti a raccontare l’Italia per più di quarant’anni. Era un’Italia conservatrice e baciapile, spesso ipocrita, ma capace anche di grandi slanci e in cui esisteva la cultura e il rispetto per il saper fare. Era un’Italia a cui adesso guardiamo con inspiegabile nostalgia, perché faceva piuttosto schifo. E noi rispettavamo, anche se non amavamo, quei sette anziani signori che ci facevano gli auguri per fine anno, come rispettavamo i nostri vecchi zii verbosi, anche quando disobbedivamo. Poi qualcosa si è rotto.
Cossiga è stato eletto ancora seguendo le vecchie regole: un democristiano dopo un socialista, un uomo di lunga militanza politica e di indubbia esperienza, forse perfino troppa, delle vicende italiane. E c’erano anche gli italiani come Cossiga. A lui, uomo indubbiamente molto intelligente, va riconosciuto il merito storico di aver capito prima degli altri – sicuramente prima di noi che abbiamo continuato con ostinazione a crederci nei partiti, anche fuori tempo massimo – che quel gioco di identificazione non funzionava più, perché nel frattempo si stavano sgretolando i partiti. Finiti i partiti, è finita la “Prima Repubblica” e quel complesso gioco a cui anche noi in gioventù abbiamo partecipato. Da allora i Presidenti hanno smesso di raccontare l’Italia e, nella crisi politica e istituzionale in cui ancora viviamo – perché se è vero che finita la prima, è altrettanto vero che non è mai riuscita a nascere una “Seconda Repubblica” – quando le regole scritte sono state via via cambiate, ma soprattutto quelle non scritte sono state eluse, quando non calpestate, il Presidente ha cominciato a diventare un giocatore tra gli altri giocatori. Ho un mio giudizio sui successivi inquilini del Quirinale, spesso non benevolo, ma d’altra parte neppure il mio giudizio su quello che ho fatto io alla fine della “Prima Repubblica” è particolarmente lusinghiero. Da tempo non mi occupo più di politica, e francamente mi interessa anche poco sapere chi sarà eletto a questo giro: non credo sia particolarmente rilevante.
Voglio fare però con voi questa piccola riflessione antropologica. Voi conoscete delle persone come Sergio Mattarella? Quando siete in fila alla posta o salite su un autobus o aspettate che vi vaccinino incontrate dei vecchi gentili e pacati? A me non succede. Mi piacerebbe un’Italia più simile a Mattarella, un’Italia beneducata, magari un po’ democristiana, che crede nelle istituzioni e nelle regole, che ascolta prima di parlare e che quando parla non urla, che va all’opera e che non rutta a tavola, che spiega che ci sono valori che dobbiamo rispettare. E che in politica, come nella vita, c’è anche una forma, che diventa sostanza. Sarà che sono un figlio della “Prima Repubblica”, un residuato del passato, ma credo proprio che Mattarella non rappresenti quello che l’Italia è diventata.
Nella foto, Luigi Einaudi giunge a Montecitorio, accompagnato da Giulio Andreotti, per prestare giuramento come presidente della Repubblica