Il titolo America Latina gioca con la suggestione di luoghi lontani, mentre nella realtà, cioè nella fiction, il dentista Massimo (Elio Germano) sta in una villona nei dintorni piuttosto deserti di Latina (e basta), dove abita con un angelo di moglie e due tesori di figlie. E però, nonostante un buon cv borghese e l’abilità professionale – per quel che ce ne intendiamo da profani – Massimo sembra fin dall’inizio sull’orlo di un blackout mentale. O già ben oltre. Forse il crollo nervoso l’ha già subìto e infatti gli viene quasi un colpo (un po’ “telefonato” per noi spettatori) quando mette piede nella sua spaziosa cantina. Sorpresa da non spoilerare.
Ecco. C’è stato un momento in cui le antiche scoperte del Dr Freud, per non dire degli incubi agghiaccianti di Kafka e dell’attitudine nientizzante degli esistenzialisti, sono stati svoltati astutamente in noir e in thriller di facile appetito da scrittori e registi che volevano farci a tutti i costi lo spavento. Spavento d’élite e pure di massa. Un affare un po’ difficile. E intanto, però, un esercito di audaci è sceso di un piano o due nel grattacielo dell’arte (o addirittura è precipitato nel vano vuoto dell’ascensore), acquattandosi in prodotti letterari e cinematografici più o meno d’essai.
Bersaglio del grande circo spettacolare che ne è scaturito è stata spesso la famiglia – una borghese cellula di produzione di senso o non senso, a seconda di come la si guarda e di come la si riproduce. Così, dal nero “colto” e dall’acuminata critica sociale, arrivano ora baldanzosi i giovani fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, che hanno già dato in Favolacce un gran colpo di martello all’istituzione, e qui piantano ulteriori chiodini, in un film minore e, si teme, già alla maniera di loro stessi. Ma noi vogliamo essere ottimisti e sperare bene.
Tornando al punto. Il dentista – cioè Germano con cranio rasato forse per ben metaforizzare il rovello interno – va allo sprofondo in primi piani soffocanti che lo pongono quasi sotto vetro e, se la camera amplia lo sguardo, annega nella solitudine di design di una società alienata, illuminata da una luce antipatica e straniante. Di certo la famiglia non basta come rifugio per chi è schiavo di una coazione a ripetere di riti scontati o pericolosi. Intenso e terribile è per esempio l’incontro del dentista col padre (i cui ppp sono allarmanti). Inconsistenti, invece, anche se volonterosi, i colloqui crepuscolari con le sue tre grazie quasi sempre (troppo) comprensive, vestite in bianco e a piedi virginalmente nudi.
Così, noi aspettiamo fin da subito il finale del film, chiedendoci dove andranno a parare i D’Innocenzo (in fondo, qui tutto dipende dal the end), in una mattina al cinema Anteo di Milano, insieme a un pugno di coraggiosi spettatori mascherinati, che con noi fremono idealmente perché i fratelli se la sbroglino magari con un piccolo aiuto di tutti i loro precursori, dai due Coen al glaciale Amenabár, al più gentile Shyamalan, passando naturalmente – ormai è obbligatorio quando il prestigiatore usa un doppio fondo – per la Corea di Bong Joon-ho. Ma sì, dai, avevamo capito tutto fin dai primi minuti. La vostra colpa, ragazzi, non è altro che questa.