Escono nuovi libri e pure un film su Anne Frank (A. F., la mia migliore amica, su Netflix dal primo febbraio). Qui siamo ripartiti dalla lettura di un giustamente “storico” pamphlet di Cynthia Ozick, riedito da La Nave di Teseo
Di chi è Anne Frank? di Cynthia Ozick, apparso per la prima volta nel 1997, sul magazine New Yorker, andrebbe volantinato agli angoli di strada, e postato in ogni ansa di quiete del web, perché è una lezione di lettura di una realtà complessa, mentre mira a liberare Anne Frank dal personaggio assolutorio e consolatorio che le è stato costruito addosso.
È stata una semplice adolescente in crisi, nella mistificazione delle coetanee americane, quando seppero di lei, che prima ancora era stata la figlia incompresa di Otto, padre cauto e timido fino all’ottusità nel gestirne l’eredità. Ma Anne Frank è stata tradita pure dallo scrittore Meyer Levin che capì la voce del Diario, e però finì per confondervi la sua, e soprattutto (in termini di pubblico raggiunto) dal testo teatrale e dalla sceneggiatura cinematografica di Goodrich-Hackett: furono pronti a raccontarla all’America degli anni Cinquanta come la ragazza che in fondo credeva nella bontà dell’uomo e a renderla protagonista di una storia in cui era stato nel frattempo smorzato (qui c’entra la lettura di Lillian Hellman) l’elemento ebraico.
La posizione di Ozick è chiara e invita a fermarsi “senza proiezioni” sul testo filologicamente ricostruito che ci troviamo in mano: “…il Diario in sé, nonostante grondi avversità ed emozione, non può essere considerato la storia di Anne Frank. Una storia non può definirsi tale se manca il finale. E poiché non c’è un finale, la storia di Anne Frank, nei cinquant’anni trascorsi dalla prima pubblicazione del Diario è stata censurata, distorta, tramutata, tradotta, ridotta; è stata resa infantile, americana, uniforme, sentimentale; è stata falsificata, volgarizzata, e, di fatto, spudoratamente e arrogantemente negata”.
Il poeta e lo scrittore fantasma
Può Anne Frank non essere lo strumento malinteso di nessuno – “una proiezione” appunto – come rivendica Ozick nel pamphlet, e insieme non andar perduta, dimenticata nella sua individualità di scrittrice e nel suo destino? Ha dato forse una risposta a questo quesito uno dei più grandi poeti del Secondo Novecento, Vittorio Sereni, in un testo di Gli strumenti umani (1965). Scrive Sereni in Amsterdam:
Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale continuavo a cercarla senza trovarla più
ritrovandola sempre.
Per questo è una e insondabile Amsterdam
nei suoi tre quattro variabili elementi
che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi
tre quattro fradici o acerbi colori
che quanto è grande il suo spazio perpetua,
anima che s’irraggia ferma e limpida
su migliaia d’altri volti, germe
dovunque e germoglio di Anna Frank.
Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.
La città olandese non è solo il luogo fisico dove Anne Frank si è rifugiata – un posto sulla cartina geografica – ma il suo specchio e quindi la sua rifrazione continua, di modo che, fuori dalla cronaca e dalla storia, ci troviamo a incontrare la ragazza ebrea nella mescolanza e nello scambio, davvero vertiginoso, tra spazio e tempo. Lo spazio che si perpetua, il tempo dell’anima che si irraggia. Per la lettura di Amsterdam sono in debito con l’analisi di Sara Montagnani.
Ecco dunque una prospettiva di libertà (poetica) per Anne Frank forse migliore di quelle estreme sottintese da Ozick – è preferibile non essere scoperta dal mondo – e, se ricordiamo bene, da un giovane Philip Roth. Ne Lo scrittore fantasma (1979), Roth vede Anne Frank “grande”, salvata, forse inventata da un Nathan Zuckerman febbrile: Anne Frank è Amy Bellette, costretta a vivere sotto copertura, estranea al suo stesso mito, per non contaminare le parole con cui è stato maledetto per sempre l’Olocausto.
Ma torniamo al punto, al centro e al paradosso apparente del discorso di Ozick: in realtà Anne Frank, afferma la scrittrice statunitense, non parla mai dell’Olocausto per il semplice motivo che il Diario finisce nel momento in cui l’Olocausto di Anne inizia. Arriva a Auschwitz nel settembre del 1944 e muore nel febbraio del 1945 nel campo di Bergen-Belsen, dove giunge dopo una marcia sfinente e crudele: le condizioni di Belsen sono terribili, non c’è cibo, si gela e, come la sorella, Anne si ammala di tifo. La malattia è letale per entrambe, muore prima Margot, subito dopo Anne.