In un ricordo di Gianni Celati, scomparso ai primi di gennaio, ho citato la sua traduzione di Bartleby lo scrivano (Feltrinelli 1991, SE 2018) e la resa in italiano della frase che marchia il racconto di Melville, “I would prefer not to”. Celati ha risolto con una voluta virtuosistica e curiosamente letterale: il suo Bartleby dice un improbabile “Avrei preferenza di no”, che dovrebbe rendere la formalità cortesemente ambigua del diniego, ma intanto lo arruola tra i sicuri avi del rap anarco-naïf di Guizzardi.
Mi è capitato di ritrovare il nome di Bartleby pochi giorni dopo nel faccia a faccia finale tra due vecchi nemici nel bel romanzo Sulla riva del mare (La Nave di Teseo 2022, ma il testo originale è del 2001) di Abdulrazak Gundah: lo scrivano si rende utile (a sorpresa!), fornendo un ponte (esotico) di citazioni attraverso cui provano a capirsi due africani di Zanzibar in esilio in una piccola località inglese di mare.
Non bastasse: Bartleby ha rifatto capolino inaspettatamente nello streaming di Ozark, mentre guardavo l’ottavo episodio della prima stagione della cupa serie di Netflix. Un contabile assai spregiudicato (Jason Bateman) risponde alla moglie (Laura Linney) che gli chiede come farà a evitare le troppo pericolose pressioni di un cartello della droga: “Come Bartleby: preferirei di no”. Qui Bateman lascia cadere il “would” ma succede anche nel testo originale.
Nel frattempo, mi è tornato alla memoria quando, da adolescente, tanti anni fa, ero deciso a dire di no alle seduzioni del mondo – borghese? Ma no, alle seduzioni del mondo degli adulti tutto intero – e impiccavo nella mia ristretta visione di vita l’Holden di Salinger, un altro buono a rifiutarsi, al fantasma ottocentesco dello scrivano per antonomasia. Anzi, “holdenizzavo” abbondantemente quest’ultimo rendendolo un disperato e romantico “adolescente per sempre” (o un rebel without a cause?). La qual cosa credo sia fuorviante. Ma chi, in fondo, salvo forse Herman Melville, sa davvero qualcosa della rivolta garbata ma di diaspro di Bartleby? Lo scrivano e il suo quasi rituale diniego non paiono avere un codice sicuro di traduzione. Provate pure a chiedere all’università oppure a Google. Ma tentiamo di piantare qualche paletto.
Dall’ufficio alle Tombe
Bartleby, the Scrivener, pubblicato a puntate nel 1853, tratta appunto di Bartleby, impiegato assunto da un anziano e si suppone savio avvocato di Wall Street – è di quest’ultimo il punto di vista della narrazione e lo scrivano ci rimarrà sconosciuto proprio perché (o anche perché) l’avvocato non è in grado di comprenderlo. Comunque: dapprima Bartleby, che è un giovane magro e sparuto, incoronato dall’aura della miseria e della solitudine, lavora sodo. Poi, d’improvviso, incomincia a rifiutare qualsiasi cosa gli venga proposta, in un crescendo o diminuendo d’azione segnato dal suo laconico “I would prefer not to”. Mansueto ma deciso, Bartleby diviene incubo e nemesi del datore di lavoro, tanto da costringerlo alla mossa paradossale di spostarsi, lui!, in un nuovo ufficio. In seguito, vittima dell’apparente spregio per ogni convenzione mondana, senz’altra dimora (forse per povertà) che il luogo di lavoro, Bartleby è arrestato per vagabondaggio e finisce in cella nelle Tombe, dove muore di stenti.
In italiano, conosciuto come Bartleby lo scrivano, con o senza virgola in mezzo oppure come Bartleby e basta, il racconto è stato tradotto, oltre che da Celati, tra gli altri da Bruno Tasso per Rizzoli (1952), da Enzo Giachino per Einaudi (1954), da Massimo Bacigalupo per Mondadori (1990) fino ad arrivare all’ultima versione nota, quella di Riccardo Mainetti (flower-ed 2021).
Di recente, però, un Bartleby revisited e molto istruttivo è entrato nelle nostre librerie dalla Francia, per via di Daniel Pennac: di e su Bartleby, lo scrittore di Belleville ha costruito una lettura teatrale con cui lenire il dolore per la morte del fratello Bernard. Pennac ha quindi raccolto la sua esperienza in un romanzo memoir, il quadro di famiglia Mio fratello (Feltrinelli 2018, il titolo originale per Gallimard è significativamente Bartleby Mon Frère).
Ma che cosa c’entra il copista di Wall Street con un papa delle lettere d’Oltralpe? Pennac si è reso conto che lo scrivano e Bernard erano creature in qualche modo simili: entrambi indisponibili ad aggravare il tasso di entropia, hanno vissuto ignorando protagonismi ed effimeri riti sociali per non aggiungere altro casino al disordine dell’esistere.
Sembrerebbe un ribellismo in minore, ma a legger bene non lo è affatto. Anzi. Per esplicitare il motivo che lo ha portato a interpretare il testo ad alta voce, officiando una sorta di rito purificatorio, Pennac ha raccontato di aver fatto “ciò che si riproponeva lo stesso Melville: vedere attraverso se stesso, e cioè attraverso il nostro io più profondo, dove giace questa risata che accompagna, qualsiasi cosa noi facciamo, i nostri sforzi più lodevoli” (intervista a La Stampa, con una doverosa precisazione per evitare equivoci: Bartleby non ride davvero mai, al contrario, come suppone Pennac, del suo autore).
Questa risata nullificante me ne rammenta subito un’altra, appena ascoltata in Piccoli addii (Adelphi, 2020), una serie di prose di Giovanni Mariotti – non per caso, Mariotti ha curato un Bartleby edito nel 1978 nella Biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges (Franco Maria Ricci). I Piccoli addii arrivano da un mondo che vede la fine della civiltà contadina e l’affermarsi di una borghesia boriosa, illusa di proporsi come “classe dirigente” – su di essa Mariotti ragazzo, orfano di padre, figlio di una cameriera, ride esilarato dalla disperazione neanche fosse l’odierno Joker: “Vuoi proprio sapere che cosa voglio essere, mamma? … Nulla”. Più Bartleby di così.
Chi non desidera niente
Si è visto da questo breve excursus che Bartleby fa parte di una serie di tipi “non desideranti” della letteratura – Pennac lo accosta tra gli altri all’Oblomov di Gončarov e al Meursault di Camus – e a inserire il copista, volente o sicuramente nolente, in una catena di sodali, ha pensato anche l’outsider delle lettere spagnole Enrique Vila-Matas. In Bartleby e compagnia (titolo con evidente ossimoro per il libro edito da Feltrinelli nel 2002) affianca allo scrivano altra gente munita come lui di penna ma esponente di quella che Vila-Matas definisce la “letteratura del No”: si tratta di scrittori in carne e ossa, che hanno rinunciato alla scrittura o hanno scritto sull’impotenza di essa (Kafka, Walser, Beckett, Salinger, ecc. ecc.). Ma usciamo pure dalle elucubrazioni del maestro spagnolo, in quelle pagine peraltro at his best. Interessano di più i motivi dell’inequivocabile rifiuto dello sfigato e in qualche modo nobile – la sua figura è quanto meno un elogio alla decenza morale – impiegato di Melville.
Fin qui, a volo d’angelo, avremmo potuto qualificare Bartleby come adolescente eterno, giovane anarcoide del ’77, ribelle apolitico o prepolitico o politico in quanto uomo degradato da un’alienante (non scrive, copia!) società basata sul denaro, esistenzialista ante litteram refrattario alla spugnosa fatticità del reale, nichilista spaesato, illuminato con (forse) una venatura orientale oppure saggio con le stigmate di Cristo o con la resistenza alla sventura di Giobbe, uomo precipitato nella malattia mentale, schizofrenia o clinica depressione che sia, e via elencando: ma probabilmente a questo punto è più opportuno leggere l’elenco divertito delle interpretazioni bartlebiane nella postfazione del paperback Feltrinelli curato dall’americanista Celati e se no, decretando un liberi tutti!, che ciascuno cerchi da sé, si prenda il rischio e si appropri del Bartleby più consono.
Di sicuro, non ce n’è uno solo, di Bartleby, e la fascinazione del racconto risiede in parte nel mistero – o piuttosto nel proliferare di interpretazioni possibili – creato da Melville attorno al suo riottoso protagonista. Se però l’estremista Celati, esprimendosi sul significato del racconto, finisce per lodare l’americano come autore di un testo perfetto poiché “aperto”, spalancato, esistono alcune certezze. Per esempio, Melville nutriva una spiccata simpatia per gli uomini che, non mentendo a se stessi, sanno dire di no alle effimere promesse della vita: essi entreranno leggeri nell’Eternità con la sola borsa dell’Io, come dice in una lettera del 1851 in cui non si riferisce a Bartleby, bensì al destinatario di quelle righe, l’amico Hawthorne. E poi: Melville vede molto bene la disumanità del capitalismo, e sa raccontarla abilmente proprio attraverso il suo avvocato incapace di comprendere la realtà, preso com’è, tra false premure e pietas pelosa, dall’adesione ai valori dominanti – il suo ufficio è né più né meno una prigione, che dà da un lato su un cavedio e dall’altro su un “pittoresco” muro molto fissato da Bartleby mentre siede alla sua scrivania occultata da un paravento.
Caricaturale e grottesco, a capo di tre caricaturali e grotteschi impiegati – Tacchino, Pince-nez e Zenzero secondo la versione di Giachetti – nella continua richiesta di prestazioni al suo riluttante dipendente l’avvocato sfiora il masochismo: assomiglia al protagonista del Corvo di Edgar Allan Poe, che non può fare a meno di domandare e farsi ribattere “Nevermore” dall’innocente uccello del malaugurio – the raven si è peraltro appollaiato sul busto di Pallade Athena, mentre nell’ufficio di Wall Street è il dio Cicerone a occhieggiare in forma di statua. Il grido dell’avvocato “Ah, Bartleby! Ah, Humanity!”, che sigilla il testo, nasconde dietro la teatrale disperazione una dichiarazione di eloquente stupidità oltre che di impotenza.
Bartleby ieri e oggi
Mi resta un passo a lato. Ho tentato di raccontare la storia anzi l’enigma Bartleby e mi accorgo che questa nota rimarrebbe monca se non constatassi l’ovvio: passando il tempo, le opere cambiano nella percezione dei lettori, delle generazioni che si susseguono, e mutano pure secondo lo stadio della vita in cui noi le incontriamo – neanche Moby Dick, per dire, è sempre la stessa Moby Dick, sebbene rimanga una balena bianca.
La mia prima lettura di Bartleby è avvenuta in gioventù durante un periodo storico di utopiche per quanto straccione speranze. Con ciò che ne segue: Bartleby mi era parso sì un adolescente irriducibile ma anche un resistente, il nunzio di una ribellione quasi ineludibile. Oggi che riprendo in mano il racconto – non sto nemmeno ad accennare al nuovo mondo che ho attorno e al fatto che lo scrivano potrebbe incarnare persino il contrario del social networker che per campare fa marketing di se stesso – oggi, dicevo, mi accorgo di aver rifatto il percorso di lettura guardando involontariamente il tutto non più dalla parte del giovane copista ma da quella dell’avvocato cui sono ormai coetaneo.
La cosa non mi ha stupito, e però mi ha colpito molto più che una volta, nella varietà dei toni, la terribile e funerea serietà del testo, la quale si manifesta (anche) nelle ripetute allusioni mortuarie sciorinate dal “buon uomo” (che in fondo sia un buon uomo senza virgolette pur se stupido?) riguardo alla figura del “cadaverico” scrivano. Mi ha toccato cioè l’evidenza fisica, il lato carnale e sinistro (non sinistrorso!) del metodico suicidio di Bartleby.
Rileggendo, ho provato un particolare struggimento nel vedere lo scrivano disfarsi di se stesso, morire a poco a poco, andare all’estrema rovina, e ho avvertito tutto il pathos consentito in quel “I would prefer not to quit”, pronunciato a mezzo del racconto, prima che l’infelice impiegato imbocchi la strada della definitiva sventura. A guardar bene, qui Bartleby non si esprime come d’abitudine con la sua consueta negazione, ma svela il barlume di un desiderio, esangue e inesaudibile ma comunque un desiderio – insieme, in questo passo risalta l’importanza formale di quel “to” ambiguo che di solito non lancia un verbo all’infinito e che ha causato tanti dubbi ai traduttori italiani della piccola frase, dalla versione che quel “to” tiene in conto, “preferirei non farlo”, fino a giungere alle contorsioni di Celati.
Sofisticherie? No. Concretezza e raffinatezza vanno di pari passo in Melville, permettendogli di farci ascoltare lo scricchiolio del nulla attraverso abili giochi di prestigio formali, come quando pone sotto minaccia la parola stessa. Tra i culmini espressivi di Bartleby, c’è la magnifica e beffarda pagina in cui i personaggi si scoprono quasi afasici: contagiati linguisticamente dallo scrivano – e non credo sia stato il Covid ad acuire questa mia sensibilità per l’evento – l’avvocato, Tacchino e Pince-nez si trovano “bartlebizzati” a parlare una lingua impoverita in cui affiorano come lapsus a raffica il sostantivo “preferenza” e il verbo “preferire”. Roba da Fratelli Marx.
Lo dico anch’io, alla fine: “Ah, Bartleby! Ah, Humanity!”.
Credit. Il disegno in apertura: art by Helena Pérez García, che ringraziamo