Non c’è la grande storia nelle pagine di Génie la matta, ma quella piccola, pari a ere geologiche di coscienza, vista da Marie: la conosciamo bambina mentre segue l’inquieta e furiosa madre tra una fattoria e l’altra, nella campagna di Francia, con l’angoscia in ogni momento di perderla, anzi di essere abbandonata.
La madre, che è la matta del titolo, o almeno così la battezza la gente dei campi e la borghesia bigotta del paese, dice di continuo alla figlia “non starmi tra i piedi”, ed è una delle tante piccole frasi che si ripetono in loop nei brevi capitoli del romanzo di Inès Cagnati – Cagnati nata nel 1937 in Lot-et-Garonne da contadini italiani, finora mai pubblicata da noi (credo), è stata una scrittrice di lingua francese, la sua seconda lingua, che esordisce al romanzo tardi, negli anni Settanta, quando vive a Parigi e insegna al Lycée Carnot.
Il racconto di Génie la matta va avanti e indietro nel tempo, dagli anni Trenta in poi, sta in bilico tra passato e presente, con i suoi diversi livelli di consapevolezza del dolore – quella che renderà a poco a poco chiara la vicenda anche a chi legge – ed è lirico ed evocativo e insieme assediato dalla prosa crudele della vita, come l’alba che appare a Marie ragazza, dopo una notte bianca passata in stazione con un romantico sconosciuto: “Era un’alba crepuscolare in una stazione invasa dagli addetti alle pulizie”.
Tra il presente e il passato, fa da raccordo la natura della società rurale. Fiori e piante con i loro nomi precisamente indicati dalla scrittrice riempiono le scene, contrapponendosi spesso all’infelice mondo animale, ai riti brutali della campagna, come l’uccisione del maiale e la caccia alla volpe, e all’innocente e toccante sofferenza delle bestie amate dalla piccola Marie, la “vaccherella” cieca Rose e l’anatroccolo Bênoit. Ma il centro vero della storia, verso cui tutto converge fino a occuparne l’anima nella luce forte della violenza che genera altra violenza e altro sopruso, si svela in ciò che si consuma un giorno nella chiesa del paese, la molestia sessuale di un “pretino” a Marie, un abuso che rimanda allo stupro subìto da Génie, madre “dagli occhi chiari come le lacrime” di una “petit bâtarde”.
Cagnati non scrive a tesi, e infatti spesso divaga, e a volte si perde in anse poco felici quanto più finisce, per dire l’indicibile, nel “poetico”: in una preziosa intervista riprodotta alla fine del romanzo e datata 1977, spiega di voler semplicemente offrire una voce a vite assurde fatte solo di miseria, indica nell’infanzia una stagione maledetta e individua la funzione del matto in una società che protegge vite apparentemente ragionevoli. Ecco: accetta il paragone quasi inevitabile con l’indimenticabile Mouchette, il capolavoro di Robert Bresson, anche se la sua prosa, nata nella spontaneità di una chiamata alla letteratura, ne condivide solo a tratti la terribile semplicità.
Resta, a chiusura di libro, il desiderio di leggere di più, e di aprire il romanzo d’esordio di Cagnati, anch’esso di ambiente rurale, Le Jour de congé – la breve bibliografia della scrittrice comprende un terzo romanzo, Mosé, protagonista un immigrato, e i sette racconti di Le Pipistrelles, usciti nel 1989 e che preludono a un periodo di silenzio (almeno pubblico), chiuso con la morte dì Cagnati nel 2007. Proprio in un’intervista per Le Pipistrelles, che affronta i temi del rifiuto del diverso, dello straniero, Cagnati dice una cosa disarmante: “Quand on a rien à dire et bien autant se taire”.
IL LIBRO Inès Cagnati, Génie la matta, traduzione di Ena Marchi, Adelphi
Nella foto grande, una scena di Mouchette di Robert Bresson