Tra le più vivide immagini di Belfast si è inserita la colonna sonora, un pugno di canzoni famose di Van Morrison, eseguite dall’irish bluesman con quella voce forte ed emotiva che passa sotto sopra e attraverso la musica e in questo caso anche sotto sopra e attraverso i fotogrammi del film autobiografico o semi-autobiografico di Kenneth Branagh, nato appunto a Belfast, Irlanda del Nord nel 1960.
Sarà perché per questo ritorno a casa, Branagh – già attore e regista principe di cinema shakespeariano, poi con le mani in pasta in tanti film popolari e spettacolari e ora assai noto come l’Hercule Poirot in carica – Branagh, dicevamo, ha spesso parlato della compassion che lo ha portato a riguardare, attraverso gli occhi del bambino Buddy, un sé bambino, “gli avvenimenti sociali e politici opprimenti che avrebbero portato trent’anni traumatici nell’Irlanda del Nord” (così a Variety). E compassion è la parola migliore per descrivere la musica di Van Morrison, persino ora che si è scoperto negatore della pandemia e di ogni fascist regime, ma questo è un discorso che ci porta altrove.
Certo è che the bright light of the street di un quartiere operaio di Belfast che mescola pochi protestanti a molti cattolici diventa all’improvviso molto dark, al manifestarsi di un riot con saccheggio di negozi che sancisce il via dei cosiddetti Troubles, i guai della prima fase degli scontri fra Irlandesi Cattolici Repubblicani e Irlandesi Protestanti Unionisti (qui all’attacco).
Abbiamo letto negli anni tanti memoir e tante “storie di formazione” irlandesi, cosicché ha quasi un effetto déjà vu questa Belfast in bianco e nero rigoroso – Branagh molto sciccosamente concede il colore solo a una panoramica iniziale della città odierna e alle fiction teatrali o cinematografiche viste dai protagonisti del film: scoprite voi il perché – ma noi siamo anziani navigati e conviene invece ripetere il tutto senza ellissi come una storia da non dimenticare mai più. Di cui fanno parte i discreti cliché di un racconto che si vuole divulgativo e quindi popolare (come già detto sopra) nel senso migliore del termine. Eccovi dunque la nostra famiglia: papà (Jamie Dornan) è a corto di soldi e un po’ furfante ma al fondo assai saggio, mamma (Caitríona Balfe) è combattiva e tiene la testa alta come fosse sempre uscita dal parrucchiere, i due nonni della working class (Ciàran Hinds e Judi Dench) sono quelli che tutti vorrebbero avere e che il piccolo Buddy (Jude Hill) usa come bussola quando la realtà gli balla un po’ troppo davanti. Nonna Dench, per esempio, è anche poeticamente cinefila poiché sa benissimo che, partendo da Belfast, “non ci sono vie per andare a Shangri-La”.
Lasciamo che tutto succeda tra questi irlandesi brava gente un’altra volta ancora, accompagnando pure noi per un tratto di strada Buddy, sospesi tra l’incanto ingenuo dell’infanzia e la stolida protervia di chi è cresciuto e ha la pretesa di parlare in nome di Dio o di chissà chi.
Intanto, a Belfast sono arrivate ben 7 nominations agli Oscar, tra cui tre per Branagh (film, regia e sceneggiatura) e due per i suoi magnifici non protagonisti (Hinds e Dench), e oltreoceano si è udito qualche borbottio. Per esempio, il critico del New Yorker Anthony Lane ha paragonato Belfast a Nuovo Cinema Paradiso, per la sua sweetness, e per il fatto che Buddy-Branagh sbarra gli occhi in platea con mamma e papà quando la super auto Chitty Chitty Bang Bang non precipita dalla scogliera ma incomincia a volare. La sequenza è a colori perché così era nella pellicola originale della Disney e perché certe volte i ricordi che lasciano tracce più profonde appartengono all’immaginazione (che ci forgia e ci consola) e non alla realtà. Non stavamo parlando di un regista shakespeariano?