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Allonsanfàn
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Gli studenti, un esame scritto e la società in mano agli anziani

Anche se c’era da aspettarselo, il rifiuto dello scritto alla maturità da parte degli studenti non può non sgomentare. I miei colleghi art director – quelli che si esprimono attraverso l’immediatezza dei codici visivi – mi farebbero notare che l’uso della doppia negazione potrebbe mettere in difficoltà il lettore medio.

Non ho mai capito che sia (o chi possa essere) il lettore medio. Nel caso citato dai colleghi “visivi” dovrebbe corrispondere al corpaccione vile ma vivo e vitale del consumatore medio, colui il quale è in qualche modo il responsabile degli acquisti. Fateci caso, nel nostro mondo leggero come un seme di tarassaco, anche la raccolta della cacca del cane è un impegno ritenuto troppo gravoso al punto che le responsabilità individuali svaniscono come le promesse di amori adolescenti.

Come per l’abusata casalinga di Voghera (divenuta ormai compiaciutissima addicted) il problema sarebbe quindi la difficoltà. Se la comunicazione è difficile, ovvero implicante eccessiva difficoltà di interpretazione da parte del cliente medio, lui stesso medesimo non compra; si rifiuta cioè di essere tale (cliente). Se il discorso (politico, morale, sociale, civile, filosofico, comico, narrativo, ricreativo, metodologico…) è difficile, il pubblico non segue. Tradotto: non ti vota, non ti compra, non ti segue, non ti sceglie. Appartiene dunque a questo tema la contestazione da parte degli studenti del tema all’esame di maturità?

Quel rivoluzionario in servizio permanente effettivo che è il signor Mario Draghi, il solo che stia cercando di cambiare le cose nel Paese immobile come un paracarro, ha spiegato in modo chiaro e comprensibile a tutti perché la DAD sia una merdaccia. Lo ha fatto proponendo, invece di menate psico-pedagogiche, argomenti che avrebbero ricevuto il plauso di Karl Marx in persona: la DAD è classista, ha dichiarato quel cripto-comunista di un banchiere internazionale. Discrimina chi ha una famiglia solida alle spalle (tradotto: padri e madri che considerano lo studio un valore e quindi sollecitano i pargoli adeguatamente), abita in una casa confortevole (tradotto: dispone di uno spazio insonorizzato) e può contare su ausili tecnologici idonei (tradotto: connessioni veloci e pc potenti). Chi ha vinto la lotteria genetica e fa parte di una benestante famiglia del Nord è avvantaggiato (eufemismo) rispetto a chi ha avuto la ventura di nascere nel pur ridente comune di Piccopendio e divide due pratiche stanzette con i nonni e tre fratellini. Saranno anche ragionamenti alla Catalano (Catalano è un fantastico marcatore del tempo, ditelo ai ragazzi che fanno la Maturità) la cui profondità gnoseologica appartiene alla categoria di proposizioni del tipo “meglio una moglie giovane e bella / invece di una vecchia e brutta”, e chissà perché questi ragionamenti li ha fatti solo Draghi. Ma questa è un’altra storia.

Il detonatore del movimento no-scritto è stata una tragedia: il ragazzo morto in fabbrica nel corso del programma “scuola-lavoro”. Poi, come accade nel nostro Paese, il dramma si è trasformato in farsa. E invece di protestare per ogni morte sul lavoro – scandalo inaccettabile in un Paese che pensa di essere progredito e civile – la rivendicazione è quella di una scuola “senza schemi da azienda”. Come si possano riconoscere gli “schemi da azienda” senza mai averne praticata una di azienda, è un mistero eleusino. Come ben sappiamo noi boomer che di scioperi scolastici ne sappiamo più del demonio, ogni occasione è un pretesto. E ogni pretesto è un’occasione per fare sentire la propria presenza. Per dimostrare – a se stessi prima che agli altri? – di essere vivi. E persino di contare qualcosa.

Sul tema del tema leggo sui giornali spezzoni di interviste: non tutto l’articolo, anche la noia ha i suoi diritti. È una lettura fluttuante, rischiosa perché il fraintendimento (il “misunderstanding” dicevano quelli che se la tiravano in azienda 8 milioni di anni fa) è dietro all’angolo, ma ti viene in soccorso la predisposizione e l’allenamento. Così, saltando due righe su tre, becco la domanda dello studente all’intervistatore: “So che le domande devi farle tu a noi, ma pensi che la prova scritta sia una prova necessaria?”. “Io preferisco parlare” sostiene invece una ragazza: “Quando scrivo mi concentro troppo sulla forma, ho paura di scivolare sulle regole grammaticali, perdo di vista il contenuto, e consegno il foglio sempre con la sensazione di avere detto pochissimo rispetto a quanto avrei voluto dire”. Afferma infine Daniele: “Se parli gli errori perdono importanza, li cancelli parlando. Non che mi venga facile nemmeno parlare, anche se credo di essere migliorato”.

Stiamo parlando di ragazze e ragazzi sul filo dei diciott’anni. Affrontano il giro di boa che consentirà loro di guidare un’auto, votare e – iddio ce ne scampi e liberi – pure di andare in guerra se fosse necessario difendere il loro Paese. Ragazze e ragazzi talmente preoccupati di non riuscire a superare la prova al punto di pretendere l’evirazione della stessa. Superare il rito di passaggio che nella nostra società chiamiamo “maturità scolastica” pare non sia poi così difficile. “Quest’anno” informa il sito tuttoscuola.com riferendosi al 2021 “è stato ammesso all’esame di Stato del secondo ciclo il 96,2% dei frequentanti. I diplomati risultano essere il 99,8% delle studentesse e degli studenti che hanno sostenuto l’esame (erano il 99,5% nell’anno scolastico 2019/20). Cento meno novantanove virgola otto fa zero virgola due. La bocciatura, un evento talmente improbabile che persino il più sfigato dei bookmaker si rifiuterebbe di quotare. (Il piccolo Salgari che è in me mi soffia all’orecchio la vicenda dei ragazzi di Vanuatu, ridente isola del Pacifico. Fonti informative attendibili sostengono che i ragazzi della tribù “devono scalare una torre alta 30 metri con stringhe legate alle caviglie. Quando il tuffo dalla torre è fatto correttamente, il ragazzo deve toccare con le spalle e la testa il pavimento. Tuttavia, le stringhe non sono elastiche e un errore di calcolo dell loro lunghezza può causare lesioni gravi o addirittura la morte del ragazzo nel rituale, che viene praticato con bambini di circa 7 o 8 anni”. Ulteriore e plastica dimostrazione della bonomia del sistema educativo occidentale).

Sento già i Ricolfi e le Mastrocole borbottare che è colpa del ’68 se i ragazzi non vogliono l’alternanza scuola-lavoro e pretendono la promozione in luogo dell’istruzione. Attribuire al ’68 la deboscia della scuola italiana è semplicemente insensato. Certo ci fu chi – non molti, non sempre non tutti – pretese il sei politico o l’esame di gruppo. Ma il sapere, il sapere scientifico, la conoscenza in generale, erano considerati stelle polari da chi militava in quegli anni a sinistra. Leggere, scrivere, dibattere all’infinito con acribia talmudica, scrivere, riscrivere e riscrivere l’ennesimo documento politico noioso come gli happening cinematici di Andy Warhol, erano considerati un piacere più che un dovere da chiunque frequentasse un qualsiasi ciclo di studi. Alla fine degli anni ’70 ebbi la fortuna e il privilegio di insegnare in un corso – in gergo “le 150 ore” – dedicato ai lavoratori adulti che volevano conseguire il diploma di terza media. Al termine del breve ciclo di studio li attendevano le prove scritta e orale. Che io ricordi nessuno di loro si aspettava qualche forma di facilitazione. Pretendevano una valutazione seria che rispettasse la loro fatica: non c’è nulla più avvilente dell’escamotage, della scorciatoia o, peggio, della finzione per chi ha lavorato con serietà.

A proposito del mondo di ieri, il mio amico di Facebook Giorgio Levi scrive sul suo blog un post molto interessante sui giornali e sulla lettura: “La gente leggeva, leggeva moltissimo. Tutti, anche persone di bassa scolarizzazione. Quello che importava era informarsi, conoscere, sapere. E ognuno di noi lettori aveva la massima fiducia nella credibilità dei giornalisti che componevano quelle redazioni… L’esatto opposto di quello che accade oggi. Le grandi rivoluzioni tecnologiche, nel campo della comunicazione, hanno azzerato cinquant’anni di storia del giornalismo. Molti rimpiangono ancora quegli anni. Ma è una cosa da vecchi nostalgici, si rimpiange l’età che si aveva, non come si lavorava nelle redazioni. Avrei elenchi lunghissimi per dimostrare che il lavoro di oggi è molto più eccitante di quello di ieri”.

Non sono sicuro che il lavoro oggi sia ovunque molto più interessante di quello di ieri. Forse nei giornali. Certamente non nelle agenzie di pubblicità. I processi di acquisizione dei brand e le conseguenti concentrazioni dei budget hanno ulteriormente marginalizzato il mercato della comunicazione pubblicitaria: le grandi campagne le fanno altrove e a noi resta sostanzialmente il solo compito del doppiaggio. Ma in ogni caso, più o meno eccitante, più o meno appagante, il mondo del lavoro contemporaneo è essenzialmente un mondo di comunicazione, al punto che affermare “i mercati sono conversazioni” è un’ovvietà.

Io temo, tu temi, egli teme. I maturandi temono. Eppure non si è mai scritto tanto come in questi anni. Messaggi, messaggini, whatsappini, brevi o lunghi proclami sui social. Si scrive come matti e si distinguono le generazioni già dall’uso dello smartphone: i ragazzi a schizzo con i due pollici, noi vecchietti con l’indice della destra. Eppure i ragazzi hanno paura della prova scritta. Davvero strano, i timori dovrebbero essere altri: ad esempio vivere in un Paese dove i vecchi si piazzano pure a Sanremo e neanche il Covid li schioda.

Credit: Oriani OCCUPATO, (mea culpa) by ålicanto is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

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