Se L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni fosse un’opera letteraria e non cinematografica, potrebbe essere un buon romanzo borghese, un romanzo di tradizione (la qual cosa non è una parolaccia), di quelli che da metà degli anni Ottanta sono spariti nella confusione/calderone della letteratura di puro consumo, nel mentre che avanguardia e ricerca si avvitavano a spirale – e spesso finivano in picchiata – nell’insipienza di certo post moderno. In sintesi, L’ombra del giorno è un film solido, di buona fattura, un’opera d’autore – Piccioni ha alle spalle una carriera varia e insieme definita – che mai si potrebbe confondere con le strutture modulari procedenti all’infinito delle serie, derivate sì dal feuilleton, ma firmate di solito nel nostro mondo tardo capitalistico dallo showrunner e dal produttore e non da chi gira la metaforica manovella delle riprese.
L’ombra del giorno è un film sulla zona grigia (o nera?) che ospita la coscienza degli italiani durante il fascismo. Piccioni sceglie un luogo dove metterla in scena – un ristorante in Piazza del Popolo ad Ascoli Piceno – e il protagonista o semi protagonista – un uomo metodico anche se spento che gestisce il via vai di personale e avventori. Lo zoppo di guerra Luciano (un efficace Riccardo Scamarcio, anche produttore con la sua Lebowski) non mostra di aver ideali o, possedendoli, li ha sepolti nella routine della vita civile di provincia, rivelatasi deludente per chi come lui è uscito da eroe dal massacro di un conflitto mondiale.
Il ristorante vanta una fauna di indifferenti, in cucina come ai tavoli, dove siedono i tranquilli ascolani e qualche vecchio brontolone – il classico professore che borbotta “mala tempora currunt, sed peiora parantur”. Luciano vigila e fa di conto per il Cavaliere che possiede il locale, finge di credere al cinegiornale di regime (“il fascismo ha fatto anche cose buone”), rimprovera con calma gelida il cuoco arruffone e un po’ cinico che ricicla barzellette su Starace e fa borsa nera.
Italiani (quasi) brava gente. Ma siamo al tempo delle leggi razziali ed è quasi naturale che il metodico Luciano subisca il contraccolpo di una realtà peggiore di quella che aveva immaginato di dovere e potere sopportare. Gli capita un giorno davanti alla vetrina una ragazza sbandata ma aristocratica di spirito, che – lo spettatore lo capisce nel momento in cui il burbero benefico le chiede cosa cerca e poi la assume – porterà vita vera e pericolosa in un’esistenza anestetizzata (la ragazza è un’emotiva e molto giudiziosa Benedetta Porcaroli).
Ecco così che per Luciano sarà sempre più difficile servire il camerata Osvaldo (un odioso Lino Musella) e la sua cricca di debosciati e donne dal lusso facile, e brindare con lui a qualsivoglia impresa farlocca (“tu non capisci niente di politica estera”, lo ammonisce il gerarca). Anche perché il cuore del reduce ha ricominciato a battere… E qui, dopo aver detto in breve quali carte ha in mano Giuseppe Piccioni, appassionatevi a guardare come le gioca o a indovinare tutto prima che le tiri giù sul tavolo.
Per tornare a sopra. Nel “romanzo” L’ombra del giorno, tanto per fare esempi tratti dal passato (dalla tradizione di cui si diceva), non c’è la psicoanalisi illuminante di un uomo massa come ne Il Conformista di Bertolucci (da Moravia), né l’equilibrio magistrale tra privato e pubblico dei due reietti che si incontrano in Una giornata particolare di Scola, né il patetismo poetico dei Finzi Contini, quelli di De Sica (da Bassani), ma neanche alcuna ibridazione da commedia all’italiana (per fortuna, sono del tutto assenti i monicellismi), e salvo qualche lungaggine e incongruenza torniamo a casa sazi e pronti a rivedere questo film onesto su una rete tv generalista. Fingendo di non accorgerci che l’assoluzione per gli italiani fascisti ma non troppo, feroci ma “dài, era perché non sapevamo”, è un po’ generosa: si avvale di citazioni da Ungaretti, antifascista a sua insaputa, ed è resa formalmente dall’abbastanza lieto fine.
Per concludere, un piccolo spoiler. Una vaga, vaghissima somiglianza con Casablanca – c’è Parlami d’amore Mariù, cantata da Porcaroli al posto di As Tears Goes By – ci ha rovinato un po’ il pathos del finale. Claude Rains comunque non compare.