Dopo aver parlato delle parole con cui indichiamo la guerra, credo che sia il momento di parlare di pace. Infatti è interessante confrontare i termini con cui nell’antichità i Greci e i Romani indicavano quella che noi chiamiamo pace, ossia l’assenza di guerre e di conflitti. Curiosamente il vocabolario Treccani definisce la pace come “la condizione di normalità di rapporti”. Personalmente non sono così ottimista come l’autorevole estensore di questo lemma e penso anzi che il conflitto sia l’elemento “normale” nei rapporti tra le persone. Ma, a onor del vero, credo anche che sia piuttosto difficile dire cosa sia la normalità, specialmente a proposito dei rapporti umani.
Tornando alla storia etimologica di questa parola, il termine greco eirene deriva dal verbo eiro, che significa intrecciare, disporre in una serie, collegare. I Greci – un popolo che non ha mai conosciuto davvero la pace, ma è sempre stato tormentato da conflitti, tra e dentro le città, ed è sempre stato in guerra con popoli confinanti più forti – immaginavano quindi la pace come la ricerca di un equilibrio, sempre precario. Proprio perché l’obiettivo era così ambizioso, la pace è diventata per quei popoli difficile da raggiungere, una sorta di chimera. E non è un caso che quando la pace è stata finalmente raggiunta, la storia greca è praticamente finita ed è cominciata quella romana. La parola latina pax, pacis ha la stessa radice pak- o pag- che troviamo in pactum. I Romani, più pratici e realisti dei loro “cugini” dell’Egeo, sapevano che la pace è qualcosa di possibile, che si può ottenere se si è capaci di combattere prima e di accordarsi poi, ossia attraverso le arti della politica e della guerra. I Greci non avrebbero probabilmente mai coniato l’adagio “si vis pacem para bellum”, che è stato invece un principio basilare della politica di Roma antica. E che continua a informare i rapporti tra gli stati. Se lo chiedete a Putin, la Russia sta facendo oggi la guerra, proprio per preparare la pace di domani, così come hanno sempre fatto gli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento e nelle guerre che hanno inaugurato il nuovo secolo.
È passato poco più di un secolo dalla fine di quella che con enfasi retorica è stata chiamata la Grande Guerra. Certamente le differenze tra allora e oggi sono molte ed evidenti, perché questo secolo per fortuna non è passato invano; ma ci sono anche tante analogie, perché certi caratteri originari della storia dei diversi paesi europei non sono venuti meno all’improvviso. Il conflitto in Ucraina sembra uscito da uno scenario geopolitico di un secolo fa: il bisogno dell’impero degli zar di assicurare il proprio confine orientale, unendo tutti i popoli slavi.
In equilibrio precario
C’è però una differenza profonda e riguarda proprio il giudizio sulla pace e sulla guerra. L’Europa del 1914 andò con baldanza e con una sorta di incosciente soddisfazione verso la guerra, perché alla guerra erano ancora associati valori positivi, come il coraggio e l’eroismo. Certo agirono fortissimi gli interessi economici delle grandi industrie che volevano la guerra – e l’ottennero – e i giornali e i propagandisti erano servi allora come lo sono adesso, ma tante persone, di tutti i ceti, pensavano sinceramente che la guerra fosse una buona soluzione, anche ai propri problemi personali, alle proprie difficoltà economiche. Non è stato così naturalmente. Anzi proprio le due guerre mondiali, con quel numero incalcolabile di morti, con la distruzione provocata dalle “nuove” armi – dai gas ai bombardieri, fino alla bomba atomica – con il coinvolgimento massiccio e senza precedenti dei civili, hanno segnato uno spartiacque nella storia dell’umanità.
La guerra naturalmente c’è ancora, non se n’è mai andata, è la condizione normale della vita di milioni di persone in giro per il mondo: dovremmo ricordarlo non solo quando si svolge a pochi chilometri dalle nostre frontiere. Ci sono i potenti che hanno interesse a farla, ci sono i giornali e i propagandisti che la sostengono, ma le persone, almeno in una grande maggioranza, sanno che non è la soluzione dei loro problemi e guardano con sgomento alle immagini che arrivano ogni sera nelle nostre case dall’Ucraina.
Anche se ovviamente questo sgomento non si traduce nella pace, non si traduce nella ricerca di un patto. Immagino che alcuni considerino queste riflessioni il vaneggiamento di un ingenuo. Mentre sono semplicemente il frutto del mio pessimismo. E come dovrà essere la pace in Ucraina? Forse adesso, dopo le guerre del Novecento, dopo Hiroshima, dovremmo aver capito che il nostro obiettivo non può più essere la pax dei Romani, ma l’eirene, la ricerca di un equilibrio, per forza di cose precario, perché siamo uomini e il conflitto è dentro di noi.
Credo proprio che dovremmo cominciare a pensare a una soluzione rivoluzionaria, perché le mezze misure rischiano di portarci a un punto morto. La pace è rivoluzionaria.
- Questo articolo si può leggere insieme al post sulla guerra, qui
- Luca Billi è noto sul web anche con il nome di Protagoras Abderites. Trovate un intero vocabolario delle sue storie, qui. Ha pubblicato il romanzo Una mucca alla finestra (Villaggio Maori Edizioni)
Credit: Peace Flags by Auntie P is marked with CC BY-NC-SA 2.0