In questi giorni disgraziati, in cui ai timori di un contagio di tipo pandemico si è aggiunto il terrore di una guerra che potrebbe deflagrare dal centro Europa all’intero pianeta, ci si muove meno rispetto alle precedenti abitudini e si diffida di più dell’informazione. Si può capire. La distanza fra le persone è una precauzione cui stiamo facendo l’abitudine, e la diffidenza per certa informazione s’impone causa la partigianeria di ogni conflitto e di qualsiasi guerra. Ci sono due cose, però, che crescono e si diffondono insieme indipendentemente dai limiti alla socialità imposti dalla cautela e dalla diffidenza, e sono il senso diffuso della compassione per le vittime con la paura per ciò che sta succedendo.
Si potrebbe discettare parecchio sui sensi e sui sentimenti (il raccordo etimologico fra senso e sentimento è ovvio) se non fosse che il senso possiede pure il significato del verso nella cui direzione vanno i nostri pensieri sulla base di pulsioni collettive, mentre i sentimenti sono qualcosa di molto più personale. Qui, spesso, s’incontra la letteratura che descrive, indaga, costruisce trame e personaggi, offre spazi per l’identificazione del sé ma anche per riconoscere l’habitat in cui la narrazione s’impianta. Forse per questo, in certi momenti, si leggono più libri. E dico “pare’’ perché, a differenza di quanto all’inizio si pensava, in questa temperie rifugiarsi nella lettura di un libro sembra sia diventata una scelta diffusa.
Ora, però, non dobbiamo pensare che si ricerchi solo l’evasione in un momento di grande crisi. L’abbiamo accennato prima. Si cerca anche il filo di una narrazione che ci spieghi un po’ meglio ciò che accade. E del resto perché mai, se non fosse così, le citazioni in questi due anni di pandemia del Manzoni con I Promessi Sposi riguardo alla questione dei contagi, delle paure e delle scelleratezze. Oppure perché mai, in queste ultime settimane di guerra in Ucraina, il riferimento agli errori, agli orrori e alla compassione per le vittime ha portato un ritorno con Dostoevskij alle tribolazioni di Delitto e castigo? E stendiamo un velo pietoso sul deflagrare della notizia che voleva Dostoevskij bandito da un corso universitario nel nostro Paese proprio adesso.
Limonov, Dugin, Putin
Ecco: da qui partiamo per proporre due letture da aggiungere al prezioso bagaglio che precede. Si tratta di un’ampia composizione e di un breve ma eccezionale racconto: il libro di Emmanuel Carrère Limonov (Adelphi) e il racconto di Hermann Melville Bartleby lo scrivano (Feltrinelli). Perché queste due edizioni? Perché il libro di Carrère, pubblicato per la prima volta nel 2011, descrive quello che stava succedendo in Europa dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e qualcosa ci dice persino di ciò che succede adesso con la Russia di Putin. La versione del racconto di Melville (uscito nel 1853 con il sottotitolo “una storia di Wall Street”) cui mi riferisco è del 1991, quando Gianni Celati lo tradusse con allegato uno scambio di lettere tra l’autore e Nathaniel Hawtorne e, in premessa, una bella introduzione.
Limonov si presenta come biografia di un personaggio nato nel 1942 a Dzeržinskij, oggi Torec’k, nell’oblast’ del Donbass, attuale repubblica riconosciuta come indipendente in Ucraina dalla Russia. Figlio di un mediocre ufficiale sovietico, Ėduard Limonov per tutta la vita sentirà il peso di questa mediocrità e cercherà di uscirne con un taglio da avventuriero che, tra fortune e miserie oggetto di alcuni suoi scritti di incerto successo, andrà in giro per il mondo (centrali saranno New York, Parigi e Belgrado) fino a morire a Mosca nel 2020 dopo aver dato vita al partito nazional-bolscevico ispirato da Dugin, adesso considerato l’ideologo di Putin. Limonov fu anche fondatore del blocco politico l’Altra Russia che seguì l’amicizia col campione di scacchi Kasparov (liberale) oggi in esilio e, da sempre, avversario di Putin.
Tramite il personaggio Ėduard Limonov (per molti aspetti repulsivo ma interessante dal punto di vista della psicologia di chi ha vissuto nel confuso periodo pre e post sovietico di Gorbačëv e di Eltsin), Carrère attraversa la storia recente dalla crisi dell’Urss fino ai rapporti di Limonov con Dugin e l’avvento di Putin. Arrivando al fondo del libro si troveranno anche intuizioni e previsioni di quello che è successo in queste settimane con Putin, non ultimo il modo in cui si è andata ponendo la questione delle forniture di gas naturale proveniente dai gasdotti russi di cui l’Occidente Europeo si è fatto, nel frattempo, largamente dipendente.
Carrère ha un elegante stile giornalistico e sua madre è una fuoriuscita russa dei tempi della rivoluzione d’ottobre cui Carrère attinge nei suoi viaggi in Urss prima e nella Russia dopo. Egli, personalmente, non è sempre chiaramente decifrabile. Anche quando parla del dissenso in epoca sovietica, tuttavia, mostra la professionalità e se vogliamo l’arte di chi dispone con garbo i fatti prima delle opinioni. Su questo, ovviamente, chi è di parte non troverà molto difficile rilevare elementi di ambiguità che si confanno di più alla narrazione che al giornalismo. Forse si potrà capire meglio lo scrittore e il suo pensiero, leggendo il successivo Il regno (Adelphi, 2015). Difatti questo libro ci propone una storia di fede religiosa e di perdita della fede intrecciata con questioni più prossime alle vicende intime e personali dell’autore.
Quel che sapeva Bartleby
Di Bartleby lo scrivano non servirà dilungarsi perché su Allosanfàn ne ha parlato già a lungo Luca Martini. Mi limiterò, pertanto, a ricordare che Bartleby viene dipinto da Melville come uno scarno e smilzo dipendente di uno studio legale sito in Wall Street, cioè al centro della New York dove si sta formando un ceto finanziario molto ricco e una classe sociale media che all’ombra di questa ricchezza esercita le sue professioni e introduce modi di produrre e di consumare con cui si arriverà, molto più tardi, alla grande crisi del ’29 e alla I e II guerra mondiale. Di fronte a chi rappresenta quell’America, e cioè di fronte al buon avvocato che lo ha preso a lavorare con sè, a ogni richiesta di prestazione che gli viene rivolta Melville fa rispondere allo scrivano così: “Avrei preferenza di no”.
Di questo racconto hanno scritto e parlato in molti ben oltre il secolo trascorso, ma Luca segnala, fra gli ultimi, Daniel Pennac che accosta Bartleby all’Oblómov di Gončarov e al Meursault di Camus, e segnala persino un personaggio della serie Netflix Ozark: il padre di famiglia Jason Bateman che, quando la moglie gli chiede che cosa ribatterà alle troppo pericolose pressioni di un cartello della droga, risponde: “Come Bartleby: preferirei di no”. Una chiosa, però, a questo punto, Luca la rileva, l’uomo lascia cadere il “would” com’era, del resto, nel testo originale. Cioè non dice “Avrei preferenza di no” bensì, direttamente “Preferirei di no”. Ebbene: sembra questione di lana caprina, ma non lo è. La formalità cortesemente ambigua del diniego con quel “would” equivalente a un “avrei” non sempre si conviene, né sempre si converrà l’accostamento all’indolenza di Oblómov o allo stranianamento di Mersault.
Di fronte alle vicende che si sono snodate con la caduta del muro di Berlino, la fine imprevista dell’Unione Sovietica, la presa del potere da parte di un’oligarchia capitalistica che si serve, con la FSB, dello stesso personale del KGB di cui Putin è notoriamente espressione, viene da pensare al capitalismo tout court, a quei modi di produrre e di consumare che albeggiavano nella Wall Street del 1865 e che adesso, spinti al limite delle risorse di cui dispone la Terra, ci stanno mettendo a rischio di una III guerra mondiale e della I nucleare (se si esclude il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki da parte degli USA il 6 e 9 Agosto 1945) cosicché, tolto ogni condizionale del tipo “avrei la preferenza…” oppure “preferirei di…”, dovremmo noi tutti dire: “No alla guerra, no al capitalismo della grande finanza, sì alla pace”.
Forse Bartleby presentiva in una specie di allucinazione la direzione in cui stava andando il mondo, la terribile crisi del ’29, la I e la II guerra mondiale più quelle locali della seconda metà del Novecento e dei primi vent’anni del Duemila, quelle cosiddette a bassa intensità ma con uguali vittime e distruzioni magari nelle parti più povere del mondo. Forse presentiva persino la guerra odierna in Ucraina che ci pone a rischio estinzione della specie e, avvilito ma impossibilitato a comprendere, finiva per lasciarsi morire pronunciando solo quella ripetitiva e apparentemente assurda frase. E qui, forse, sta la spiegazione che nel racconto manca perché frutto soltanto dell’intuizione dell’autore, e che neppure Celati nella sua eccellente introduzione rileva perché inimmaginabile. Ma Melville – navigatore degli oceani, creatore della figura vendicativa del capitano Achab e della simbolica balena bianca Moby Dick, misto di fantasia e realismo da grande narratore – infine la propose metaforicamente alla nostra attenzione.
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