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Allonsanfàn
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La tragedia di Lady D in Spencer. Bravi gli attori, Larraín no

Ottimo casting. È stata una mossa azzeccata prelevare – da centinaia di film britannici – Timothy Spall per farne il militaresco maestro di cerimonie del Castello di Sandringham. Con il suo angoloso viso cavallino, impostato su un’indecifrabile smorfia non si capisce se più snob o lealista, Spall fa già metà atmosfera di quel Natale del 1991, quando i reali inglesi passarono feste gelate segnate dal malessere (manifestato in disturbi alimentari più autolesionismo) di una Lady D infelicissima e poi ribelle.

Ottimo casting 2. La principessa Spencer che arriva a Sandringham in ritardo, da sola su una Porsche, previo pellegrinaggio sui campi che furono paterni – ritrova un lacero Barbour del babbo prestato a uno spaventapasseri – è una sofferente e mimetica Kristen Stewart con permanente bionda, occhiali giganti Gucci e golfino spallato che fa tanto Roaring Eighties. Impeccabile nel copiare accento e mannerism dell’autentica Lady D – si può controllare su YouTube, trovando i pezzi di interviste note a cui l’ex Vampira di Twilight si è ispirata – ma pronta a farne deflagrare la fisicità trattenuta ben oltre la soglia del protocollo rigidissimo consentito dalla blasonata compagnia di giro dei reali.

Kristen/Diana viene affidata da Spall al freddo (metaforico?) del castello, all’antipatia della superba famiglia acquisita e, per fortuna, alle cure di un’ancella sveglia come un folletto buono e latrice di un segreto LGTB, la sorridente Sally Hawkins (ottimo casting 3), già applaudita chez Mike Leigh e al soldo di Del Toro.

Il meglio del film Spencer firmato dal regista cileno Pablo Larraín, esperto in biografie romanzate (Jackie e Neruda) si ferma all’applauso per gli attori poiché è segnato da un doppio passo falso. Lo script di Stephen Knight (eppure è quello di Taboo, Peaky Blinders e Lock…) è esageratamente kitsch e sentenzioso sempre pronto ad andare di metafora a scapito della cronaca, e la cinepresa di Larraín, lontanissima come consueto dalle lande dei biopic, non ha la forza visiva per stare al gioco e infatti riesce a produrre solo a sprazzi scene visionarie e/o stranianti.

Knight comunque gli ha confezionato un bel pasticcio: pressapoco ogni battuta è un aforisma e vedere il film in italiano peggiora la situazione facendolo somigliare a una sorta di trombonico dramma teatrale (non spenderemo l’aggettivo shakespeariano e neppure quello pinteriano) con al centro un personaggio che non ha le spalle (meno quelle del golfino) e non ha credibilità storica e morale per reggere una tragedia universale. Né tantomeno per incontrare nei corridoi del castello lo spettro inconsolabile di Anne Boleyn con cui fare sinistra comunella – avvisiamo: qui Larraín scivola nel ridicolo.

Insomma, mentre ingoia perle (la scena metaforica più riuscita e davvero terribile del film) e si pone grandi domande sulla sua vita di prigioniera e sulla crudeltà quasi muta ma di diaspro del marito e della suocera, alla fin fine Diana Spencer – quella di Larraín sia ben inteso, non quella di The Crown, né tanto meno la “vera” principessa – finisce con l’indispettire il pur empatico spettatore: in fondo, potrebbe essere solo una sciocca impudente che sputa nel piatto dove banchetta, pardon che vomita nel water quello che ha mangiato.

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