Tra gli estremi di Chopin, amato dal padre canaglia, e Bob Seger, rockettaro bombastico, prediletto da un’occasionale compagna di lui, si situa la colonna sonora originale di Flag Day – Una vita in fuga: contiene canzoni di Eddie Vedder (Pearl Jam), che ha un vocione ancor più introspettivo senza la band, e ballate di Cat Power, canoniche, meno blues e meno acide del consueto, anzi.
Il nuovo film di Sean Penn si situa all’interno di queste coordinate musicali, seguendone in qualche modo qualità e spessore. Quando si crede Chopin, Penn suona un po’ farlocco, come battesse moneta falsa (paragone non casuale); se fa Seger vediamo che gli anni sono stati impietosi – anche con lui! Si viaggia appunto meglio nella medietà adulta del film, quella di Eddie & Cat.
Il film nasce da un memoir del tipo padre Peter Pan e figlia che lo ama più di se stessa, e che a poco a poco, tra un disastro e un abbandono, capisce chi è davvero papà, nel senso che gli dà un’accettabile dimensione, nel bene e nel male. C’è più di un momento in cui, seguendo lui, lei potrebbe perdersi ma alla fine ce la fa, da spiantata fumatrice di weed diventa giornalista, e scrive tutta la storia che Sean Penn gira rincoglionendoci con i flashback (si va avanti e indietro dal 1970 pressapoco al 1992). Per la cronaca, il memoir è Flim-Flam Man: The True Story Of My Father’s Counterfeit Life di Jennifer Vogel, e lo sceneggiatore è di peso, l’inglese Jez Butterworth, sodale di Sam Mendes per Spectre, e ideatore seriale di Britannia. Cioè: professionalità e gusto popolare ma sofisticato.
Gli stop and go della relazione tra padre e figlia però sono molti, forse troppi per un film solo, e contengono tutti un clou iper sentimentale, di norma impaginato come un videoclip (con canzone cantata quasi per intero da Eddie o Cat) o un intimo super8 girato nel giardinetto dietro casa. Si strugge lei – che è poi Dylan Penn, classe 1991, quasi sosia di mamma Robin Wright, bravissima a ogni svincolo della storia -, ghigna triste lui, il sole che tramonta li vede in controluce. Chi piangerà per ultimo? Ci sarà ancora tempo per un abbraccio? Vogliamo semplicemente notare che Penn si è ficcato in un tipico sottogenere del più glorioso e sentimentale cinema hollywoodiano, quello tra figli e genitori disfunzionali, ma a sorpresa non si agita più di tanto per uscire dal canone del già visto.
Notiamo in aggiunta che il clima da straziante filmino di famiglia o da docu verità – questa la scelta stilistica che risulta oggi fatale all’originalità del Penn regista – è aiutato dall’uso della pellicola 16 millimetri al posto del più freddo digitale; e aggiungiamo che un certo tono elegiaco di ascendenza malickiana ha provocato gravi (irreversibili?) danni visivi a Penn e all’America cinematografica tutta.
Anche perché il tono elegiaco di cui sopra lascia il posto a ben pochi e vivaci colpi di testa, fatta salva la mascalzonata quasi triste del finale, in cui il personaggio di Penn – in genere troppo vecchio quando fa il giovane cool, e troppo gigione quando fa il vecchio alla deriva – si consegna al paradiso dei perdenti per sempre. Quello che alla fin fine si nota di più nella sua prova, tra vorticosi cambi di acconciatura e barbe e baffi tinti in nero pece, è il lampo dell’accendino: non c’è scena in cui Sean non abbia tra le labbra una paglia – scelta forse simbolica giustificata tematicamente dal fatto che il personaggio ha pure vizi da piromane.
Insomma, quando smonteranno il film dalle sale e ci chiederanno: hai visto l’ultimo di Sean Penn? Risponderemo: dici Into The Wild? Ed è un po’ un peccato.