Sfoglio Cere perse (Bompiani), una raccolta di scritti giornalistici di Gesualdo Bufalino, datata 1985: dovrebbe essere ancora più preziosa per il suo status di marginalità rispetto ai romanzi dello scrittore siciliano.
Bufalino era lui stesso considerato a torto o a ragione un marginale, un appartato outsider della nostra letteratura – si sapeva che faceva il professore a Comiso e che stava bene per i fatti suoi, cosa che mandava in solluchero i cercatori di geni extravaganti.
Non mi meraviglio che sia ora confuso nella memoria tra i tanti veri e farlocchi scrittori irregolari – sono una schiera – della seconda metà del secolo scorso.
Provo a spiegare. Bufalino debuttò molto tardi e come se non gli importasse: pubblicò sessantunenne per Sellerio, complice Leonardo Sciascia, Diceria dell’untore (1981, ma covato da decenni); era un romanzo basato su un’esperienza autobiografica ma nato, o così lui raccontò più tardi a Sciascia, come un gioco letterario – almeno il primo capitolo, fondato su una combinazione di parole scelte in anticipo. Poi, con ogni evidenza, Bufalino scoprì la piacevolezza del praticare le lettere in pubblico, poiché tempestò l’Italia di poesie e aforismi, saggi e prose d’arte, traduzioni e naturalmente narrativa, aggiungendo al Campiello del 1981 il tutt’altro che marginale premio Strega del 1988 con Le menzogne della notte (Bompiani). Questo, come ricorda Piero Melati nella nuova prefazione a Cere perse, mentre si sentiva “preda di una notorietà che paragonò a ‘una gogna’ dipingendo il destino di scrittore quale ‘sinistra avventura’”.
Comunque. Bufalino si presentò, attraverso la Diceria, tra i tubercolotici pazienti del dottor Mariano Grifeo Cardona di Canicarao detto il Gran Magro, con la civetteria di chi si proclama inattuale o già postumo in vita, e questo piacque molto ai cacciatori di irregolari, e non solo a loro, a dispetto o forse grazie alla postura di fatto reazionaria, in senso letterario, dello scrittore.
Negli anni Ottanta sembrava poter cadere in disuso la ricerca di un artificioso “bello scrivere letterario” – lo avrebbero dovuto seppellire, unendo le forze, le sofisticate pagine post modern di Eco e i gerghi eversivi impastati di parlato alla Tondelli (Alberto Casadei, Italianistica, vol. 31, maggio/dicembre 2002). Invece Bufalino scriveva e scrisse sempre benissimo (artificiosissimo). Ebbe anzi un largo successo perché, a proposito dei rapporti tra scrittori e pubblico, rientrava nella categoria “istituzionale” (Vittorio Spinazzola): non è un insulto ma significa pressappoco che Bufalino si legge bene, senza far fatica, anche se uno ha la terza media. A guardare meglio, si legge con ancora maggiore soddisfazione estetica, perché il professore di Comiso, con il suo stile anticato, definito da lui stesso per la Diceria “barocco borrominiano” (e quindi strutturale), sembra arduo e scosceso, elitario ed erto, e bla bla bla, mentre poi… Cito, per notare il livello di apparente complessità o almeno di suggestiva complicazione, il titolo scelto per questa raccolta: “Persa si dice la cera che lo scultore modella fra due blocchi di terra refrattaria e che, esposta al fuoco, si scioglie lasciando di sé soltanto un’impronta vuota”.
Aggiungo a riprova della “istituzionalità” di Bufalino che queste sue “impronte vuote” sono elzeviri – una pratica di “bello scrivere” ormai esaurita – e che uno di essi vinse il premio Ennio Flaiano per il miglior elzeviro nel 1984. Noto che è stato pubblicato per la prima volta, come la maggior parte degli altri articoli compresi nel volume, su Il Giornale di Indro Montanelli. Ed ecco: come per contrappasso, la posizione reazionaria in letteratura si specchia in quella politica. Di solito, gli inattuali e gli estinti già in vita sono poco inclini a lodare il progresso dei lumi et similia e pronti invece a accompagnarsi, forse per la punizione di essere pessimisti, con la volgare maggioranza silenziosa che poi di loro si stufa presto e li condanna a diventare essi stessi una minoranza zitta. Salvo nicchie di fans, Bufalino, scomparso in un incidente d’auto nel 1996, è oggi un autore da revival o da reload.
Quindi. Che cosa farsene di queste Cere perse ristampate a quasi un quarantennio dalla prima edizione e aperte con fuochi d’artificio dedicati all’utilità/inutilità della letteratura e al ruolo a un tempo croce e delizia di chi la pratica? Vanno lette naturalmente, divertendosi e chiedendosi ogni tanto se risponde al vero (per tutto Bufalino) l’esordio della colta e appassionata introduzione di Melati: “‘Oh veramente ha ragione quel tizio: la palla che lanciai ragazzo, mentre giocavo nel parco, non ha ancora toccato il suolo’: in una ventina di parole c’è il segreto di Gesualdo Bufalino. C’è il suo intendimento di rubare alla figura letteraria del mago (il Merlino delle antiche saghe) il potere di fermare il tempo. C’è anche… il pericolo di restare prigionieri del proprio stesso incantesimo. Ma, ben di più, c’è quella leggerezza invocata da Calvino nelle sue Lezioni americane per il prossimo millennio: sottrarre peso alla pietra delle cose”.
Io ho preferito i piccoli saggi sui francesi, passione dello scrittore – da Proust che consente un’esperienza di amore ricambiato a Charles Baudelaire viaggiatore mancato, inseguito per vie traverse e cioè attraverso gli epistolari – e tutti i pezzi in cui Bufalino nomina un altro scrittore, sia Flaubert o Stefano D’Arrigo, sodale siciliano cui rende grazia per l’Orca – da irregolare a irregolare – ma, quasi per una beffa concordata col destino, troppo tardi.
IL LIBRO Gesualdo Bufalino, Cere perse (Bompiani). Nella collana dei Classici Bompiani sono disponibili i due volumi delle Opere.
Nella foto di apertura, particolare di Edicola, collage di Renato Guttuso