È interessante ricordare – e diverte curiosare tra i sei episodi della miniserie Netflix I diari di Andy Warhol, tratti dal memoir dettato a Pat Hackett – che l’artista americano già dall’alba si propone come il brand di se stesso, attraverso la Andy Warhol Enterprises, nata per commercializzarne l’opera – a che cosa serve per esempio il magazine satellite Interview detto “la sfera di cristallo del Pop”?
Warhol s’imprende e si brandizza – si direbbe ora – in imbarazzante anticipo sugli odierni poveracci che lo fanno da sé magari via social media. È lui come artista, in un’abile e spericolata costruzione, la sua più grande opera d’arte, an artist as art come pochi altri nella storia (Wilde, Stein, Dalì), avo illustre degli sfigati nipotini di YouTube o TikTok (Jeffrey Deitch).
Partito dal disegno pubblicitario, per programma di poetica legato al suo brand, Warhol approda a una sorta di business art che ne pone l’immagine al centro della galassia: è un’arte d’impresa, di far soldi, che si apre a ventaglio su più attività, con collaboratori capaci e fidati, e di fatto eclissa il tipico fancazzismo dell’ideologia hippie.
È naturale che, come accade nei quadri di Uncle Sam, il Warhol scaltro imprenditore di sé si tramuti, anche quando l’atto potrebbe non essere volontario, in una geniale parodia – non c’è bisogno di citare la sua partecipazione a una puntata di Love Boat perché sia evidente – e questo lo rende di imbattibile simpatia.
“Vorrei essere una macchina, voi no?”, dice Warhol il cui studio peraltro si chiama Factory (Fabbrica). Quando si sentirà invecchiare, per reazione si mette a budget persino come modello (diventando quasi anoressico) sui cataloghi d’agenzia pieni degli amati maschi WASP che gli sbocciavano intorno.
Al di là di questa bizzarria con risvolto sentimentale – i Diari conducono tra l’altro una quasi interminabile ricognizione su amori e gayness dell’artista, la quale ai tempi toglie credibilità a un’opera originalissima per quanto “diversamente iconoclasta” presso critici volgari come Robert Hughes e colleghi snob come Robert Rauschenberg – Warhol, dicevamo, si brandizza coerentemente in tutti i modi e i mondi della comunicazione e dell’arte: il cinema, delegato a Paul Morrissey o all’amato ma trascurato Jed Johnson (è suo il tonfo di Bad); i giornali, con Bob Colacello a capo di Interview; la musica, tornata appetibile con Mtv, e poi la tv tutta, produttrice sicura di seppur breve fama e che poi altro non era che il social media di una volta – e riguardo alla tv Warhol capisce prima degli altri le possibilità del reality show.
Ma torniamo per un attimo a dipinti, tele, serigrafie, polaroid preparatorie scattate a raffica, insomma al primo forno. Nel post ’68 – che per Warhol significa rinascere dopo l’attentato – ne rinnova il coté commerciale attraverso i portraits of a society, e di questi vengono prese le commissioni con estrema spregiudicatezza. La signora Jagger, Jerry Hall, svela che per distinguere i ritratti femminili fatti di mestiere, basta guardare il filo delle labbra, il discrimine è il rossetto se perfetto o sbaffato.
I diari di Andy Warhol appassionano perché, oltre a mostrare come si costruisce un mito (e un marchio) in stato di capitalismo avanzato, come accennato fanno anche il percorso al contrario: cercano il cuore del re del Pop, la sentimentalità dell’uomo nascosto nel fittizio personaggio con grandi occhiali e parrucca nivea, cosa che può interessare in quanto quell’incredibile uomo qualunque, morto a 58 anni per una sventurata operazione chirurgica, con “la macchina Andy Warhol” ha strettamente a che fare.
- Per Andy Warhol e la tv, anzi Love Boat, c’è un bel racconto di Luca Billi
Credit: Andy Warhol Burger King 1980s Ad on Billboard 2443 by Brechtbug is marked with CC BY-NC-ND 2.0. Andy Warhol, Campbell’s Soup Cans with viewer by profzucker is marked with CC BY-NC-SA 2.0. Self Portrait – Andy Warhol, Pop Life Exhibition, Tate Modern, London.by Jim Linwood is marked with CC BY 2.0. .jpg