Ci fu un tempo in cui restammo ammirati dal crudele e beffardo sguardo sul mondo di Friedrich Dürrenmatt, svizzero di Staldem im Emmental nel Bernese, nato il 5 gennaio di cento e uno anni fa (e scomparso nel 1990).
Il primo romanzo poliziesco che scrisse, nel 1950, Il giudice e il suo boia (Feltrinelli 1960, Adelphi 2015), lo affermò in libreria e arrivò a tutti gli italiani dentro il televisore nel 1972, in un cupo sceneggiato di Daniele D’Anza, dove il commissario Bärlach, fatalista indagatore del Caso (Zufall) che tanta parte ha nella nostra vita e negli scritti di Dürrenmatt, aveva gli occhi spiritati e la piega amara della bocca di Paolo Stoppa; il bis fu immediato con Il sospetto, tratto dall’omonimo libro del 1951 (Feltrinelli 1960, Adelphi 2022) – l’illustre clinico Emmenberger attorno alla cui identità ruota la storia aveva il viso severo di Adolfo Celi. Ecco: di sicuro mescoliamo un po’ nel ricordo lo Stoppa che fa Hans Bärlach e lo Stoppa che, l’anno dopo, si presenta sul piccolo schermo nei panni del veggente belga Gerard Croiset, ma forse è una perdonabile confusione, visto il pessimismo dello scrittore svizzero riguardo la nostra capacità di padroneggiare la realtà.
Fu il terzo romanzo, La promessa (1957; Feltrinelli 1959, poi Einaudi 1975 e Adelphi 2019) a stregarci da ragazzini, perché più arioso nello sviluppo – e meno meccanico, ghiacciato nelle sue tesi – anche se portava nel seguito del titolo un significativo proclama letterario: Un requiem per il romanzo giallo.
La promessa ha per protagonista il commissario Matthäi, detto Matthäi matta tutti, investigatore abilissimo che promette – e mai l’avesse fatto – ai genitori della piccola Gritli Moser, uccisa da un maniaco nel bosco, di scoprire il colpevole.
Purtroppo lo sceneggiato tv che seguì nel 1979, firmato da Alberto Negrin, aveva per protagonista non più Stoppa, ma l’ex latin lover Rossano Brazzi, e allora rimanemmo delusi in anticipo e ci mettemmo in caccia di un altro adattamento, il film Il mostro di Mägendorf diretto da Ladislao Vajda nel 1958. Parlo qui sin dall’inizio al plurale non per atteggiamento megalomanico ma perché credo di rappresentare una diffusa (allora) categoria di lettori.
Romanzo poliziesco o giallo – è ancora assente al nostro orizzonte la paroletta noir. Già in quei tardi anni Sessanta fummo costretti a capire che quelli di Dürrenmatt non c’entravano con il genere che portava – per lo più in edicola – il nome di un colore. A spanne, capimmo che i racconti dello svizzero dai grandi occhiali (simbolici?) erano affini ad altre opere letterarie come Il giorno della civetta (Einaudi 1961) o A ciascuno il suo (Einaudi 1966) di Leonardo Sciascia – altro centenario dalla nascita, l’8 gennaio 2021, altre riedizioni per Adelphi -, in cui non eravamo proprio certi che, prima della parola fine, qualcuno finisse in manette.
Non eravamo certi, cioè, che si verificasse la borghese ricostituzione dell’ordine infranto, obbligatoria nelle accomodanti versioni tradizionali e popolari dei libri del mistero. E per forza: per Dürrenmatt, le deduzioni e le abduzioni degli investigatori in cerca di Giustizia – altro termine chiave, oltre a Caso, nei testi dello svizzero e indicante una verità che travalica la Justiz delle norme dei codici penali – finiscono a portarli così fuori via, e sono intellettualmente così deboli, da precipitarli nella terra di nessuno del delirio.
Delira Màtthai matta tutti al termine de La promessa – come delira, e ci era chiaro, l’uomo contemporaneo nell’incertezza che minaccia la sua apparentemente strutturata vita quotidiana.
Ridotto a un clochard, Màtthai scaccia invisibili mosche dal viso, pronunciando parole senza senso a fianco di una diroccata stazione di benzina al The End dell’ultima versione cinematografica dell’opera (The Pledge, con Jack Nicholson interprete, altro che Rossano Brazzi!, e Sean Penn regista, 1991): e il colmo della perfidia di Dürrenmatt è che noi e non il suo detective infallibile sapremo che la pista investigativa era giusta, che non aveva messo in gioco invano la vita sua e quella di chi (forse) amava. È stata una circostanza imprevedibile a togliergli dalle mani il serial killer – una qualifica che allora non usava –, quello che nel romanzo arriva in Buick nera ed è chiamato da una piccola potenziale vittima il gigante dei porcospini. Quando l’ex comandante di polizia, che narra l’intera vicenda, raggiungerà Mätthai per spiegargli il mistero, il commissario indementito non è più in grado di dargli retta.
Il giallo così come la drammaturgia dì Dürrenmatt – oggi riproposto da Adelphi che ha fiutato aria propizia per trarlo dall’oblio – inchioda ai suoi futili riti l’identità fragile dell’uomo borghese (sia pure poliziotto) e la civile e un po’ grigia società del benessere: mettere alla berlina i nostri sogni trasformandoli in incubi a Dürrenmatt (come al più ostico Max Frisch dell’Homo faber) riusciva benissimo, portandoci spesso e volentieri lontani dalla Svizzera tedesca, ma vicini alla dimensione internazionale del grottesco. Non ci sorprese troppo che La panne (Einaudi 1972, Adelphi 2014) nella nota versione cinematografica, La più bella serata della mia vita (1972) di Ettore Scola, avesse per protagonista la maschera immortale di Alberto Sordi, italiano facilone che sprofonda poco a poco e poi di botto nelle tenebre.
Non sappiamo quanto sia possibile, ieri e oggi, sfuggire a questa notazione di Dürrenmatt che, oltre la feroce critica, sembra contemplare l’esistenza di un diverso orizzonte: «La frattura tra come l’uomo vive e come potrebbe vivere diventa sempre più ridicola. Per questo la nostra è un’epoca del grottesco, della caricatura».
A margine Le traduzioni Adelphi sono di Donata Berra, nota anche come poeta, e di Margherita Belardetti, nata “per caso” in Svizzera. Due Bärlach della Feltrinelli che ho sottomano sono di Enrico Filippini, La promessa che ho letto in edizioni Einaudi è scomparsa da qualche parte nella mia libreria ma era tradotta da Silvano Daniele, giustamente occupatosi pure di Freud o Jung. Sarebbe divertente mettere a confronto le copertine, che una volta usavano abbondantemente e comprensibilmente George Grosz ma anche Moebius, e oggi propendono per autoritratti (Il giudice e il suo boia) e quadri dello scrittore stesso come L’ultima assemblea generale della Banca federale (1966) in Giustizia oppure per scatti di Arnold Odermatt, singolare figura di fotografo della Polizia Svizzera, scelto per la cover de La promessa e de Il sospetto. Verrebbe da chiedere a un art director: quale immagine rende il centenario e scorbutico Dürrenmatt più appealing?
CrediT: File:Max Frisch und Friedrich Dürrenmatt – Com L12-0059-8021.jpg by Metzger, Jack is marked with CC BY-SA 4.0.