Già durante la proiezione, pensi: ma che cosa hanno in testa i giovani fratelli registi Adam e Aaron Nee? E Sandra Bullock, prim’attrice e pure produttrice, perché ha rischiato dei dollari per recitare tre quarti di film chiusa in una tutina di paillettes che la fa somigliare a Michael Jackson pace all’anima sua? E Channing Tatum, prim’attore dall’aria stolida di sempre, che prova a imitare un Brad Pitt caricatura di se stesso qui assoldato per un inutile cameo muscolare, ecco: ma che cosa gli è preso a tutti? Ultima domanda: c’era davvero bisogno di riproporre con The Lost City un long-lost genre: the big-budget action-adventure movie-star rom-com (questa la definizione di Rolling Stone Usa)?
Che poi, non tralasciando ovviamente di citare Alla Ricerca della Pietra Verde di Robert Zemeckis (1984) e Il gioiello del Nilo di Lewis Teague (1985), film girati dalla coppia Douglas e Turner, si arriva persino a pensare – anche per quella paroletta, “lost”, infilata lì in cartellone quasi per caso nonché per i sussulti archeologici della trama – si pensa insomma che i fratelli Nee di The Lost City abbiano osato partorire un pronipote fuori tempo massimo del cinema fumettoso e pirotecnico de I Predatori dell’Arca Perduta (1981) – pure lì, appunto qualcosa era “lost”, perso, e per Steven Spielberg da riesumare, forse la voglia di divertimento puro sparata su grande schermo.
Be’, come che sia, al botteghino The Lost City è andato più che benone nonostante gli anni agonici del Covid 19 – alla Paramount hanno fatto un bel cin cin – e un critico del New York Times, che ho pescato sul web in cerca di lumi, parla addirittura di occasione persa, poiché – sostiene – in The Lost City si poteva nobilitare la trama, da un punto di vista femminile-ista.
Si sarebbe cioè potuto insistere un po’ di più sul fatto che Bullock, autrice di rosa ma seria archeologa dagli ineccepibili studi universitari, funga da Pigmalione al maschio vacuo, il super modello Tatum, famoso solo per apparire in cover ai romanzi di Bullock e assolutamente malato della propria bellezza e del proprio successo da social.
Comunque, questa la trama: Loretta Sage (Bullock), appartata scrittrice, ha trascorso la sua carriera scrivendo romanzi d’amore ambientati in luoghi esotici. Il protagonista dei suoi racconti ha per la gente il viso e il corpo (soprattutto) del figurante in copertina, Alan (Tatum): è lui, in realtà un inetto, a incarnare l’eroe Dash. Bene. Mentre è in tour per promuovere il nuovo libro insieme ad Alan, Loretta viene rapita da un miliardario schiodato (Daniel Radcliffe con barbetta caprina) convinto che lei possa condurlo al tesoro di un’antica città perduta. Eh già. Alan si mette in viaggio per salvarla… Coinvolti in un’epica avventura nella giungla, con sullo sfondo un vulcano che erutta minaccioso, i due battibeccanti saranno costretti ad andare più che d’accordo. E noi sappiamo già qual è il vero tesoro di cui si parla molto per metafora (ah, l’amore!).
Come ben si capisce c’è proprio tutta la paccottiglia del long lost genre per lanciare una nuova coppia ad alta chemistry e ad alto tasso di sprezzo del pericolo (e come di consueto anche un po’ del ridicolo). Ma vedrete che mentre io qui sto ancora borbottando – e riflettendo sul desiderio di leggerezza di Bullock dopo un titolo drammatico che la vedeva quasi catatonica (The Unforgivable, 2021) – magari hanno già iniziato le riprese del sequel (o di un reboot). E allora benvenuti tutti nella Lost City of D!