Tunisia, estate 2011. La vacanza nel sud del Paese volge in tragedia per Fares, Meriem e per il loro bambino di dieci anni, Aziz, colpito per errore durante un conflitto a fuoco.
La famiglia di Un figlio (Bik Eneich – Un Fils) rispecchia la Tunisia filoccidentale dell’era Ben Ali (deposto nel gennaio 2011): composta da due genitori belli, giovani e agiati, sprofonda nel dolore di un imprevisto fatale, legato alla minacciosa instabilità del Paese, e nella realtà di una società ancora dominata dal patriarcato islamico.
Diciamo semplicemente che un trapianto di fegato, di cui ha assoluto bisogno il bambino, e la scoperta di un tradimento extraconiugale, svelato come una ulteriore disgrazia all’interno della disgrazia, confliggono con gli ordinamenti e la mentalità prevalente.
Volano gli stracci tra Fares e Meriem, al capezzale di Aziz, risucchiati in antichi comportamenti e in errori che avevano dimenticato. Dietro Fares furioso c’è l’ombra di un padre odiato. Meriem annega nei sensi di colpa una lontana vendetta sentimentale.
Il correlativo oggettivo della situazione, e l’altra Tunisia rispetto all’ospedale dove con competenza si cura Aziz, debole e intubato, sono i paesaggi desertici bellissimi e immutabili dove jeep e suv paiono moduli di astronavi scesi sulla luna. Oppure si condensano nello sguardo che giudica di un’altra donna in sala d’attesa, quest’ultima però protetta dal velo.
Ha dichiarato il regista esordiente Mehdi M. Barsaoui – nelle interviste veneziane del 2019 quando il film è stato presentato in Orizzonti – che la Tunisia è stato il primo paese arabo ad abolire la schiavitù, a dare alle donne il voto in elezioni libere. Tuttavia, resta reazionaria e liberticida, per esempio nella legge sull’adulterio – cinque anni di prigione senza appello se il delitto viene confermato. Né dobbiamo dimenticare – ed è una circostanza che entra nel plot – i limiti di una legge per cui è il padre il tutore del bambino. Il trapianto di organi, invece, è un tabù culturale, poiché la religione musulmana rispetta l’integrità del corpo.
Cosi, nell’ospedale di provincia si consuma un dramma che è (quasi) un thriller psicologico. Meglio: troviamo nella costruzione drammaturgia un segno del cinema dell’iraniano Asghar Farhadi, narratore di eventi complessi e ricchi di svolte impreviste che richiedono scelte morali in situazioni limite, decisioni così tragiche da far credere, come nel film di Barsaoui, che l’unica possibilità di salvare il figlio per la famiglia modello – ora sfasciata nelle salette dell’ospedale retto da medici cauti e pragmatici – sia quello di piegarsi a un traffico orribile di bambini venduti letteralmente a pezzi.
La dimensione dell’opera prima di Mehdi M. Barsaoui è però universale. Ha il linguaggio e la capacità di interessare tutti, travalicando l’immediato motivo politico di condanna a una Tunisia dove i personaggi trovano ad attenderli sotto la superficie dei loro comportamenti “moderni” gli sbagli di un passato sempre incombente.
Grande prova davvero degli attori, di Najla Ben Abdallah (vista nella serie tunisina Maktoub) e di Sami Bouajila, ormai un veterano, che ha vinto meritatamente con Un figlio il César 2021 per il miglior attore bissando il premio di Venezia 2019.
Nella foto in alto, Sami Bouajila e Najla Ben Abdallah