Fin dall’inizio, procedendo per quadri fissi, tenuti a lungo – e per lungo si intende un tempo leggermente superiore a quello sopportabile da spettatori abituati a montaggi indiavolati – e per quadri, proprio come formato, che per di più neppure al loro interno hanno il dono del movimento, Generazione Low Cost (nettamente meglio il titolo originale Rien à foutre) dà l’impressione di un soffocante stato di stallo o almeno che tutto si svolga in un ambiente ristretto: una hostess sciorina compìta la lista dei prodotti acquistabili su un aereo, un passeggero squattrinato chiede inutilmente pietà al check in per il bagaglio troppo pesante (non l’avrà), due colleghi di volo in pausa si scambiano confidenze ubriache, ma superficiali, stravaccati su un divano.
Infatti: la protagonista del film franco-belga, una camaleontica Adèle Exarchopoulos (è persino brutta quanto più è scazzata), lavora da hostess nella micro e micragnosa compagnia aerea Wing, e in un giorno fa quattro scali diversi ai quattro angoli del continente ma è come se non si fosse mossa dalla sua base, un divano e una discoteca a Formentera. Di più: sembrano angusti anche i confini del suo spazio interiore che, fatta salva la disco, coincide con una laconica comunicazione tra colleghi e sui social network: Adèle E. frequenta per inerzia Tinder e si scatta svogliata il selfie alle tette, presentandosi significativamente col nickname di Carpe Diem (titolo di lavorazione del film).
Tutto quello che nel momento in cui la incontriamo desidera “carpire” o perseguire Adèle E. è un’esistenza senza legami e dimentica delle proprie radici, riassunta in una sorta di atarassia difensiva, sia negli affetti sia sul lavoro, il quale lavoro poi, a terra o in volo, è dominato da un’insopportabile burocrazia del profitto, fatta di gesti economizzati e di gerghi da dad cerebrale, padroneggiati da caporali che sono persino più feroci degli stessi generali.
La routine depressa di Adèle E. è però personale oltre che generazionale. E anzi il fatto che questa sia dovuta – anche – a una coincidenza individuale toglie un po’ di forza alla narrazione di una generazione alienata (da se stessa, dalle proprie ragioni più intime) che è il soggetto del film.
La strenua difesa di Adele E. di contro a un mondo infame è incrinata dal ricordo insistente della madre, morta da poco in un molto banale incidente stradale. L’elaborazione del lutto riporterà la ragazza in seno alla sua infelice famiglia, in Belgio, e si riverbererà in maniera imprevedibile su una esistenza 24/7 priva di aspettative e pure di sogni.
Rien à foutre, primo lungometraggio per tutti e due i registi/sceneggiatori Emmanuel Marre (1980) e Julie Lecoustre (1987), ha vinto a Cannes 2021 il Prix à la Diffusion della Fondation GAN, e basa la sua riuscita su un lungo lavoro quasi sociologico di studio e sull’estro mimetico di Adèle E., arrendevole nel tentativo di accontentare gli altri per toglierseli dai piedi ma anche spontaneamente capace di gesti di umanità spicciola, appena ha un minimo di spazio per ragionare con la propria testa, e sono proprio quei gesti che gli aguzzini di Wing Air sono lestissimi a farle pagare.
Rien à foutre è un’altra prova che il cinema francese o comunque francofono di questi tempi si occupa e sa parlare molto bene e senza illusioni di lavoro.