A quarant’anni dalla morte di Rainer Werner Fassbinder (1945-1982) abbiamo rivisto Germania in autunno. Staccano dal resto del famoso film corale i 25 minuti del secondo episodio della pellicola, quello firmato appunto da Fassbinder, che segue le immagini iniziali dei funerali del leader confindustriale Hanns-Martin Schleyer, assassinato dai terroristi della Rote Armee Fraktion.
Fassbinder, con un vero colpo di teatro, mostra tutto se stesso in quell’autunno del 1977, 25 minuti moltissimo privati e quasi paranoici, per denunciare il drammatico momento storico che mette all’angolo sinistra e progressisti: nessuno fiata sotto la minaccia da ricatto di esser considerato un complice.
In Germania, ogni parola è presa come acquiescenza al terrorismo, ed è frainteso persino il premio Nobel Heinrich Böll – scrive il penultimo episodio del film, quello di una grottesca censura all’Antigone di Sofocle, che desidera seppellire i propri morti, episodio precedente le immagini del funerale dei suicidi-suicidati nel carcere di Stammheim il 18 ottobre 1977.
In un lungo dialogo con la madre, in cucina, Fassbinder espone le sue preoccupazioni sulla democrazia in Germania e viene invitato dalla donna a non prendere posizione pubblica.
Inutile. Fassbinder si butta nel suo tratto di pellicola a corpo morto – e nudo – occupa lo schermo fornendoci un pezzo di vita di un uomo al collasso che mette di continuo le grosse dita nella rotella del telefono, e parla parla parla, mentre fuma una Marlboro dietro l’altra, tira cocaina (citando come scusante Siggi Freud), vomita, si lamenta di non riuscire più a lavorare, esclude di scapparsene a Parigi, dà in due parole al telefono alla mamma la notizia del dirottamento Lufthansa – gli avvenimenti precipitano infatti uno dentro l’altro nella “Germania in autunno”: i palestinesi chiedono il rilascio dei capi della Rote Armee Fraktion, c’è il colpo di mano delle teste di cuoio, segue l’uccisione di Schleyer dopo 43 giorni di prigionia lo stesso giorno in cui si consumano i tre “misteriosi” suicidi di Stammheim: i morti sono Andreas Baader, Gudrun Ennslin e Karl Raspe.
Fassbinder discute di notte, nudo all’apparecchio, proprio della fama di quel sorvegliatissimo carcere, e intanto e per tutto il tempo del suo episodio, tratta come un servo il compagno Armin e arriva a picchiarlo per il suo rozzo conservatorismo, quando questi invoca la legge del taglione per i dirottatori – cerca anzi di buttarlo fuori di casa sua ma poi, poco dopo, si dispera e ha bisogno di un abbraccio.
Stress e furore. Sincerità e lucidità drammaturgica in un assoluto casino politico esistenziale. Fassbinder si scopre a un tratto borghese che non si fida ad accogliere in casa uno sconosciuto, incontrato da Armin, e ascolta con inquietudine il suono delle sirene della polizia – a buoni conti fa un tiro di coca e butta l’erba nel cesso. Il tutto mentre nel montaggio si ritorna in cucina nel faccia a faccia con la madre sulla necessità che un’intellettuale si schieri e bla bla bla.
L’assolo di Fassbinder fa passare oggi quasi in secondo piano il resto dell’opera dove Alexander Kluge e Volker Schlöndorff cuciono episodi puliti e intellettuali – Kluge per esempio ripassa i suicidi della storia, da Mayerling a Erwin Rommel – Edgar Reitz firma un quadretto con guardie minacciose alla frontiera (della democrazia), Wolf Biermann non canta ma recita una poesia per Ulrike Meinhof, scorrono immagini di repertorio degli anni Venti giustapposte a quelle del 1977: lo stop dei tre minuti di silenzio nelle fabbriche della nazione, le bandiere della Mercedes che sventolano, i funerali “blindati” dei tre della RAF per i quali – vedi appunto l’Antigone secondo Böll – non sembra scontata neanche una sepoltura.
Fassbinder in quel periodo sogna “di fare film belli e fantastici come quelli di Hollywood, ma che siano una critica allo status quo”. L’episodio di Germania in autunno si pone tra Roulette cinese – Chinesisches Roulette con Anna Karina e Despair – Eine Reise ins Licht, il primo film girato in inglese, con Dirk Bogarde protagonista, che ha per tema la perdita dell’identità.
Nella foto, RWF attore brechtiano in Baal