La “settima arte” – il cinema – la affascina al primo incontro. È il 1902, Elvira Coda ha 27 anni e la sua famiglia si è trasferita a Napoli da Salerno, per trovare nuove prospettive. Il padre, Diego, punta ad avere una clientela più ampia per il suo negozio di tessuti in una grande città. Il quartiere Stella, però, offre poche occasioni al suo commercio. C’è povertà, sono in pochi a potersi permettere abiti nuovi. Fra i figli, Elvira è quella più complicata. Ha un diploma di maestra, cosa non diffusa ai tempi; non ha però predisposizioni esplicite e aiuta con le sorelle la madre sarta o nei mestieri di casa.
La svolta avviene per caso. Il cinema, inventato sette anni prima, è proposto al pubblico umile in baracchini dove è motivo di meraviglia. Un giorno Elvira, come magnetizzata, paga pochi centesimi ed entra. Lì conoscerà il suo destino, in tutti i sensi; viene catturata dalla magia del cinema e da Nicola Notari, un fotografo e pittore precario, ingegnoso e con un non so che di fascinoso.
Così comincia la pur breve carriera di Elvira Coda Notari, la prima donna regista e produttrice italiana di cui era giunta una lontana eco, giusto fra gli specialisti.
L’ha tratta dal generale oblio il romanzo biografico di Flavia Amabile, giornalista del quotidiano La Stampa, intitolato semplicemente Elvira (Einaudi Stile Libero), grazie a un faticoso lavoro di ricostruzione.
Di Elvira erano reperibili solo poche notizie, spezzettate. Presso la famiglia Notari non si è tramandato granché; nelle cineteche, pochi spezzoni di pellicola. Invece Elvira Coda girò, con la casa di produzione fondata a Napoli, più di 60 film e 100 documentari e diede lavoro a tutta la famiglia che per un certo periodo ebbe un relativo benessere.
Questi film sono una testimonianza preziosa, anche sotto il profilo sociologico. Ecco la Napoli dei bassi, dove il Risanamento degli inizi del secolo non aveva risanato granché. Risulta una dimenticata precorritrice del Neorealismo.
Questa “scordanza” ha una serie di concause. Il carattere schivo, ritroso di Elvira, innanzitutto. Non è donna di spettacolo, lei, preferisce crearlo dietro la macchina da presa.
La censura fascista la prende poi di mira: le storie che racconta, le immagini che diffonde cozzano contro lo storytelling del Regime, che vuole rimandare agli italiani e all’estero un’immagine di Paese senza povertà o delitti. Ogni suo film viene passato al setaccio e respinto.
Infine, il male oscuro di Elvira è quella terza figlia, Maria, “parcheggiata” in un orfanatrofio, pur se destinataria di una retta per il mantenimento.
È una situazione che, come un cancro, corrode i rapporti familiari, esplicitamente con la figlia maggiore, Dora, e crea incomprensioni col marito, pur in un matrimonio relativamente riuscito. Nicola le sta a fianco e ne riconosce l’abilità di donna d’affari, lasciandole mano libera e facendole da scudo rispetto alle autorità, malgrado ai tempi fosse cogente la potestà maritale.
Dopo tanta lotta, Elvira getta la spugna e per sedici anni, fino alla sua morte, nel 1946, si allontana da tutto e tutti, rifugiandosi in una casetta a Pianesi di Cava dei Tirreni.
La demenza senile non la rende consapevole che entrambe le figlie la vanno a trovare. Nella mente di Elvira chissà quale film c’è.
Il libro. Flavia Amabile, Elvira (Einaudi Stile Libero)
Annamaria Barbato Ricci, autrice di questo articolo, è giornalista e addetto stampa. Si definisce “la nonna di tutti i precari” e sa essere un’ottima stalker per ottenere la pubblicazione dei propri comunicati che, controcorrente, sono scritti in corretto italiano.