Serve un po’ di tempo per leggere questo libro – Harald Haarmann, Storia universale delle lingue, Bollati Boringhieri editore, ottobre 2021 – mentre, magari, abbiamo necessità di fare anche altre cose. E un po’ di tempo ce ne vuole anche per scriverne. Non tanto per l’ampiezza: in fondo sono meno di 500 pagine, ma per la difficoltà a seguire temi sicuramente ostici. Fin dal titolo, però, il libro ci rassicura sulla sua fruibilità dando conto sia di una certa attualità del tema sia di precisazioni che ammorbidiscono la diffidenza del profano. Il sottotitolo è “dalle origini all’era digitale” e, in caratteri più piccoli, una frase per chi si sentisse impreparato: “una panoramica impressionante sulle lingue del mondo e il loro sviluppo, in una prosa chiara e accessibile”. A questo punto ci si può buttare, tanto più sapendo che l’autore è un linguista e antropologo di fama internazionale sebbene in pochi abbiano letto il libro in Italia nella versione originale del 2016 perché è la prima volta che appare, nella traduzione di Claudia Acher Marinelli, con le riflessioni sull’era digitale.
In verità c’è stata una generazione – intorno agli anni ’60, quando il mondo era ancora lontano dal sentirsi proiettato in quest’era – che alla linguistica si stava avvicinando per diverse strade tra cui il Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (linguista e celebre semiologo svizzero) e Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss (antropologo e grande etnologo francese). Spinti dall’impegno e dalla competenza, intellettuali come Umberto Eco e persino scrittori e poeti (i più riuniti attorno al Gruppo 63 e/o alla redazione de Il Verri), ma anche insegnanti e studenti usciti dal bozzolo di una cultura che cominciava a misurarsi con lo studio comparato di diverse discipline e lo sguardo un po’ oltre la nostra frontiera, incontrarono lo strutturalismo.
Possiamo anche dire che lo strutturalismo generava da Ferdinand de Saussure che nel suo fondamentale testo spiega come si formano le lingue a partire da fonemi e morfemi, significati e significanti, ma anche dal contributo di Lévi-Strauss che, visitando popolazioni primitive, analizza riti, costumi e pratiche di comunicazione che introducono a realtà strutturate in modelli non necessariamente antagonisti seppure sconosciuti e originali. Si può dire che da questi studi stava emergendo un’apertura al mondo fino ad allora inimmaginabile, e una nuova critica che si esprimeva con esponenti di indubbia rilevanza scientifica come Noam Chomsky, anch’egli linguista, presente in quanto attivista politico a livello internazionale (pensate alla guerra del Vietnam) negli anni della contestazione e fino a oggi. Ma fermiamoci qui, per ora, e torniamo al libro di Harold Haarmann.
Storia universale delle lingue ci pone di fronte a conferme e novità che derivano da una minuziosa classificazione delle specie e sottospecie di lingue in cui si esprimono gli esseri umani. La premessa necessaria è che una lingua unica, che si differenzia in tante lingue diverse quando con la Torre di Babele l’uomo tenta di avvicinarsi a Dio, non esiste. Esiste, invece, il processo evolutivo dall’homo erectus all’uomo moderno che, spargendosi attraverso continue migrazioni nel mondo, si adatta ai climi e agli ambienti per necessità, possibilità e operosità dei suoi simili, costruendo anche, e/o distruggendo, civiltà e culture a confronto con modelli di comunicazione strutturati in lingue diverse: alcune considerate da tempo morte sebbene ancora oggetto di studio, altre vive, e altre ancora in corso di trasformazione persino con processi di ibridazione. Con il supporto degli studi compiuti da antropologi esperti di genetica come il nostro Luigi Luca Cavalli-Sforza, Haarmann prova, dunque a classificare le lingue, raccoglierle in famiglie e fornire spiegazioni arrivando, fin dove ha potuto, ai giorni nostri.
Leggete una citazione dell’autore che ci dice molto sulla natura della sua opera: “Questo lavoro si concentra soprattutto sull’arco temporale di circa 10.000 anni durante il quale si sono sviluppate le grandi famiglie linguistiche nel mondo in tutta la loro varietà, ma si spinge anche fino alla preistoria dell’umanità. Una visione d’insieme così ampia nasconde certamente dei rischi. I tanti sviluppi linguistici, e in particolare quelli più antichi quasi inafferrabili a livello empirico, hanno dato vita a svariate teorie e ipotesi. Riporto qui le più importanti, specie laddove non disponiamo ancora di un’opinione unanime in merito a questioni specifiche. L’ampia panoramica offre tuttavia dei vantaggi perché solo se analizziamo l’origine e lo sviluppo della comunicazione verbale in una prospettiva evolutiva, possiamo ricostruire la storia universale delle lingue”.
Le grandi famiglie
Con ciò vedremo come Haarmann riconduca le lingue a grandi famiglie tra cui l’Indoeuropeo da cui discenderanno lo Slavo-germanico, l’Ario-greco e (ricostruito) l’Italo-celtico. Con dei rischi, ci ricorda, perché forse non sfugge all’autore che per esempio un altro grande e discusso linguista contemporaneo scomparso nel 2005, l’italiano Giovanni Semerano, sostenne che l’Indoeuropeo non è mai esistito in quanto le lingue europee risultano di provenienza mediterranea e fondamentalmente semitica, con il che persino la Genesi andrebbe letta in modo diverso e più vicino al sentire contemporaneo. Ma su questo non è il caso di soffermarci oltre. Del resto il nostro autore ci avverte che, per distinguere le grandi famiglie linguistiche, non bisognerebbe guardare solo al Vecchio o Antico Continente, ma alle terre con cui s’intrecceranno molteplici relazioni con la scoperta da parte dell’Europa del Nuovo Mondo o Continente Nuovo, ovvero l’America e le isole adiacenti.
In proposito, Haarmann ci ricorda che a oggi sono state censite almeno 6.417 lingue e anche che alcune, considerate troppo spesso dialetti, potrebbero invece considerarsi vere e proprie lingue tant’è che formula questa considerazione di carattere generale: “Nessuna legge [e ci permettiamo di aggiungere nessuna classificazione] può imporre la nascita, l’evoluzione o il tramonto delle lingue […]. Ad affermarsi di solito sono le lingue che si adattano meglio al loro ambiente, cioè alla maggioranza dei parlanti. Idiomi minoritari usati per fini molto precisi possono sopravvivere in nicchie linguistiche. Grandi lingue possono dominarne altre e, per finire, sostituirle. In questo le lingue assomigliano a forme di vita della flora e della fauna; ecco perché fin dagli anni ’60 del secolo scorso la tutela delle lingue è intesa come tutela della specie”. Per riallacciarsi a quanto scritto più sopra, ecco anche perché fra i primi italiani che si interessarono alla linguistica e allo strutturalismo negli anni ’60, troveremo non solo intellettuali poliedrici e versatili (persino eruditi) come Umberto Eco ma, come abbiamo detto, anche scrittori e poeti che volevano portarsi oltre l’avanguardia novecentesca destrutturando il linguaggio corrente e qualificandosi come neo-avanguardia (fra tutti vogliamo ricordare forse il più estremo, Edoardo Sanguineti). Alcuni giovani, alla luce di queste idee, intanto si sprovincializzavano e davano luogo a movimenti di contestazione con caratteristiche proprie e altre comuni ad altri Paesi, soprattutto in Europa e in America.
L’era digitale
Ma facciamo un lungo balzo in avanti, e veniamo alle considerazioni di Haarmann sull’era digitale. Il numero complessivo delle lingue che sono state censite ci dice che oggi va dalle 1.906 dell’Asia alle 143 dell’Europa, e che con la globalizzazione si formano anche le cosiddette pidgin, cioè lingue semplificate nell’incontro tra popolazioni diverse in specie tra le europee e le indigene dell’Africa, del sud est Asiatico o dell’America, con prevalenza dell’inglese già allenato alle ibridazioni del periodo coloniale come del resto il portoghese, lo spagnolo, il francese e per certi versi anche l’italiano.
Non è argomento che riguardi la demografia questo, ove prevarrebbe il cinese con le sue innumerevoli lingue, ma di circolazione della comunicazione accentuatasi con il più facile e veloce trasferimento delle merci e delle persone e pure, oggi, con l’uso di strumenti informatici con cui una lingua, l’inglese, più di altre va diffondendosi e permea altre in specie con l’uso di termini tecnici o specialistici che identificano, in prima istanza, oggetti finora inusuali, soggetti e modalità di comportamento da riconsiderare.
Siamo alla langue con cui Ferdinand de Saussure aveva inteso contrapporre al semplicismo delle parole, il sistema lessicale e delle strutture grammaticali e sintattiche da cui si può, per induzione, risalire partendo dagli atti di linguaggio individuali, concreti e contingenti. Per esempio, ci segnala Haarmann, che il pidgin–english non a caso è costituito da un lessico inglese molto semplificato su una base grammaticale e fonetica cinese, il che ci porterebbe a un altro discorso su come andrà strutturandosi il futuro nel mondo dell’era digitale.
Ci dice per concludere, il nostro autore, che “[…] fin dall’antichità non esiste cultura la cui evoluzione non sia stata influenzata in modo evidente dai contatti con altre culture vicine e, pertanto, anche dalle loro lingue […]. Un contatto linguistico non è semplicemente l’incontro tra due sistemi di segni, ma è sempre anche un incontro tra culture poiché è con la lingua che l’essere umano plasma il suo ambiente culturale”. Non è allora – sentiamo noi adesso il bisogno di dire – che nella temperie in cui ci ritroviamo costretti a vivere, se usassimo la langue della diplomazia, della tolleranza e dell’accoglienza, anziché assordarci col rumore dei cannoni e delle bombe tornate a deflagrare in Europa, potremmo avanzare meglio e di più in questa nuova era che avrà pure i suoi limiti, ma anche sterminate possibilità che possono essere sfruttate se abbiamo maggiore capacità di ascolto e di intesa?
- Fabio Baldassarri ha pubblicato Il segreto di Procida per Kairós Edizioni