Il trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio è stato celebrato dall’uscita di libri di autori come Enrico Deaglio, Lirio Abbate, Salvo Palazzolo e Giacomo Di Girolamo. Quattro titoli sulle vicende di mafia, argomento che oggi riscuote ben poco consenso da un mercato che non è più scosso, per fortuna, da tragiche notizie e pronto, di conseguenza, a dare una risposta emotiva forte. E che ha perciò perso per strada i lettori leggeri. Quelli che arrivano solo quando succede qualcosa, mentre rimane la fetta degli irriducibili.
I “maniaci” dell’argomento non possono non notare come tre titoli su quattro siano dedicati ai fratelli Graviano, mentre uno solo a Matteo Messina Denaro.
Quando si parla dei Graviano si parla soprattutto di Giuseppe, soprannominato Madre natura come fosse una divinità, capace di dare la vita e dare la morte, scrive Enrico Deaglio in Qualcuno visse più a lungo (Feltrinelli). Giuseppe con due fratelli e una sorella è figlio di Michele Graviano, un uomo di cui Riina si è sempre fidato. Perché il loro padre ha sostenuto la sua ascesa e quella dei Corleonesi quando non erano ancora i padroni di Palermo, scrive Salvo Palazzolo in I fratelli Graviano (Laterza).
Uomo dalla grande liquidità, Michele Graviano viene ucciso il 7 gennaio 1982. È un omicidio strano il suo. Graviano infatti aiutava Riina, ma era anche amico di Stefano Bontate, uno dei perdenti eccellenti della guerra di mafia dei primi anni Ottanta. Quella guerra fu come una partita di calcio finita 100 a 0 o 100 a 1 perché i morti furono praticamente tutti della parte avversa a Riina tranne il Graviano ucciso da un fedelissimo di Stefano Bontate. Alla morte del padre il nonno affida gli affari a Giuseppe. C’è di mezzo, racconterà poi Giuseppe nel 2020, un investimento importante nella società di Silvio Berlusconi. Dopo avere dato i soldi sarebbe avvenuta la formalizzazione dell’entrata in società.
Dal 1984 Giuseppe Graviano è latitante per la condanna subita nel Maxiprocesso ma questo non gli impedisce di fare una bella vita e di incontrare, dice lui, nel 1993 il tycoon televisivo. Sostiene di sentirsi protetto e infatti va in vacanza a Forte dei Marmi, a Roma, passa da Milano e si stabilisce a Omegna sul lago Maggiore. Poi, una sera, va a cena da Gigi il cacciatore in via Procaccini a Milano con fratello e fidanzate, si fa il segno della croce prima di mangiare (lo faceva sempre racconterà poi un cameriere), ma la prima forchettata gli va di traverso perché i carabinieri se li portano via. La storia dei Graviano finisce qui con quella cena alla quale, sostiene Lirio Abbate in Stragisti (Rizzoli), doveva partecipare anche Matteo Messina Denaro che invece non si fece vedere.
Sulle spalle di Giuseppe Graviano piovono anni di carcere comminati per l’omicidio di don Pino Puglisi e le stragi del 1992. Fine pena, mai. Tramite la sorella Nunzia, indicata come mente finanziaria, continua a gestire i suoi affari, ma è un boss perduto. La normale vita di un mafioso dice che gli anni di carcere prima o poi arrivano. Se in galera ci vai da giovane la condanna è di pochi anni che servono a fare vedere che sei un vero uomo che sopporta il carcere e non parla e quando sarai uscito il tuo prestigio sarà cresciuto. Ma se tu vanti “una copertura favolosa” e ti prendono dopo solo dieci anni di latitanza dandoti l’ergastolo la tua figura di boss ne esce un po’ ammaccata. Lui però non cede, sta zitto e solo dopo molti anni inizia a raccontare la storia del finanziamento a Berlusconi senza uno straccio di prova. Guadagna qualche titolo sui giornali e finisce lì.
Nonostante il carcere riuscirà anche ad avere un figlio, i contatti si vede che non mancano, ma mentre lui sconta una pena che non ha fine, l’altro Matteo Messina Denaro rimane libero.
Il figlioccio di Riina, quello che ai Corleonesi dava del noi e non del voi come racconta Giacomo Di Girolamo in Matteo va alla guerra (outing: chi scrive collabora con Zolfo editore che ha pubblicato il libro) rimane sotto traccia. Fino all’89 non lo conosce nessuno e la sua latitanza inizia nel ’93 quando quell’altro va in galera. Non ostenta, non fa casino, con Riina si inventa “la Supercosa, la Cosa Nostra di Cosa Nostra”, il privé della mafia. “Riina si specchiava in Matteo”, si vedeva forte e giovane come nel racconto dello specchio magico che restituisce un’immagine di giovinezza. Ma non sapeva come finiva il racconto con il giovane dello specchio che si mangiava l’anima dell’anziano.
E quando il vecchio boss nel carcere di Opera inizia a parlare e lanciare messaggi, una lettera anonima gli spiega che è meglio stare calmo. La sua famiglia potrebbe avere qualche problema. Da Palermo il centro si sposta verso Trapani. Cade Riina, lui si porta via i preziosi documenti del covo del boss. Magari un memoriale di Moro, magari una agenda rossa. E con Zio Totò cadono anche Graviano, Bagarella e tutti i Corleonesi. La mafia stragista non esiste più. Provenzano si defila e resisterà fino al 2006 e allora ne resterà solo uno: Matteo Messina Denaro.
Nella foto di apertura, identikit Matteo Messina Denaro