“Vivere è già vincere”. Questo potrebbe essere il filo conduttore del libro Punto di fuga (Edizioni 21lettere) di Mikhail Shishkin, autore di fama mondiale vincitore del Premio Strega Europeo 2022, ex aequo con Primo sangue (Edizioni Voland) di Amélie Nothomb.
Tradotto dal russo da Emanuela Bonacorsi, con la copertina di Jacopo Starace, Punto di fuga è un romanzo epistolare asincrono, da cui emergono prepotentemente sentimenti, speranze, ricordi, emozioni, passioni, paure, sofferenze, amore per la vita, domande anche di stampo filosofico sul senso stesso dell’esistenza, così come della morte.
Vladimir e Alexandra
Due innamorati si mettono a nudo, si confessano anche ciò che non hanno mai detto prima a nessuno. Forse nemmeno a loro stessi. Una sincerità e una limpidezza quasi inusuale, con parti sensuali, a tratti brutali. Due realtà diverse: lui, Vladimir (chiamato dall’amata anche Vovka, Volodya o Voloden’ka), aspirante scrittore, si arruola volontario nella guerra dei Boxer agli inizi del ’900, evento che inevitabilmente lo porta a cambiare; diventa da una parte quasi ossessionato dall’idea della morte, dall’altra ha una gran voglia di “sentire la vita”, di ritornare dalla sua amata, di dirle ciò che non le aveva detto quando poteva.
A volte la morte viene considerata dal giovane l’unica soluzione per non sopportare e vedere più la violenza della guerra, la povertà, la mancanza di umanità, la perdita degli amici. Che senso ha? Perché? Poi però, riflettendo e guardando il tutto da un punto di prospettiva diverso, si chiede che cosa sia in fondo la morte. Non è forse un dono che ci è stato dato, così come la vita?
Paradossalmente, in questa situazione, con la morte che gironzola vicino, Vladimir capisce il reale valore di ciò che aveva, di ciò che ha, l’importanza delle piccole cose che rendono grande la quotidianità. Ciò che sta vivendo da una parte inevitabilmente lo scombussola, dall’altra gli rende tutto più chiaro, facendogli così cambiare piano di valori e priorità nella sua vita. Partendo proprio dalla sua amata, perché “per esistere devi vivere, non nella tua mente, che è così inaffidabile… ma in quella di un’altra persona, e non una persona qualunque, ma quella che ha a cuore la tua esistenza”.
Lei, Alexandra (chiamata anche Saška o Sašen’ka) scrive dalla sua città della sua quotidianità, del vuoto che sente per la lontananza del suo uomo, della forza che le dà scrivere e ricevere le sue lettere. Descrive i luoghi, gli odori e i sapori della sua terra; ricorda quando andava a mare con i genitori, quando aspettava ogni sera sul divano il suo papà, direttore d’orchestra e poi pilota d’aereo, per farsi leggere un libro, ascoltarlo al pianoforte o farsi stupire per i regali bizzarri con cui a volte tornava a casa. Lei che da piccola, curiosando per casa, aveva trovato in una scatola dei piccoli sandali da bimbo, scoprendo così che aveva un fratellino, ammalatosi di una malattia incurabile a tre anni. I genitori decisero di avere subito un altro bambino, ma la madre non accettò mai che nascesse una femmina. Da qui le insicurezze della giovane, il non piacersi, le ribellioni, il sentirsi diversa e non adatta, considerata quasi una matta. Poi l’iscrizione a medicina per dare aiuto agli altri e un amore travolgente e totale per il suo Vladimir, che le ha fatto capire il suo vero valore.
La storia è ambientata in una Russia senza tempo, senza alcun riferimento storico, non sovietica o post sovietica, ma una Russia universale. Probabilmente perché quando descrive la guerra combattuta dal giovane, in realtà si vuol parlare di tutte quante le guerre, che hanno caratteristiche drammaticamente comuni. Cosa fare allora? Per l’autore l’unica cura è la letteratura, la poesia, la bellezza.
La lezione di Tarkovskij
“Compito del letterato, soprattutto di uno scrittore russo oggi, è lottare per la sua cultura e la sua lingua, non inventando ma descrivendo la realtà e ciò che si percepisce. Sempre con sincerità, perché il lettore lo capisce”, ha detto il 21 maggio scorso al Salone del Libro di Torino. A Torino Shishkin ha anche svelato che uno dei suoi maggiori maestri è stato il regista, sceneggiatore, scrittore e critico cinematografico Andrej Tarkovskij, di cui ricordiamo, tra gli altri, i film Stalker, Solaris, Lo specchio e Andrej Rublev. Da adolescente rimase folgorato dai film del regista e dall’utilizzo di strutture narrative così atipiche. Da quel momento volle puntare sull’unicità, dando alla parola, con il passare del tempo, un potere forte, una funzione magica, quasi catartica. Per spiegare con più chiarezza questo concetto, l’autore fa riferimento al Nuovo Testamento, in particolare al primo versetto del Vangelo di Giovanni, facendo dire a Vladimir che scrive perché scrivere è vivere e vivere è scrivere. Solo così sente la forza della vita, stando più vicino a lei e quasi alleggerendosi dalla drammaticità di ciò che lo circonda attraverso la scrittura, che assume quindi un potere salvifico e terapeutico. Il giovane trova forza scrivendo e leggendo le lettere della sua amata. È questo che lo fa andare avanti, nonostante tutto.
Tutti i modi di scrivere
Per quanto riguarda la scelta di scrivere un romanzo epistolare, potrebbe sembrare inusuale, essendo un genere letterario oggi non più così tanto utilizzato, ma questo non è altro che un espediente narrativo: le lettere di Vladimir e Alexandra, infatti, diventano a un certo punto dei diari intimi, in un viaggio nel tempo tra ricordi del passato, descrizione del presente e speranze per il futuro. Sono dei diari che volendo si possono leggere anche indipendentemente, distinguendosi per contesti e situazioni molto differenti e anche per il tipo di linguaggio utilizzato: più cruento quello di lui, pur non perdendo la sua vena romantica, più dolce e poetico quello di lei, nonostante i contrasti interni e le insicurezze che si porta fin da quando era piccola. A un certo punto del libro si nota chiaramente una differenza temporale tra le due corrispondenze, permettendo così a Shishkin di porre riflessioni filosofiche ed escatologiche. Vladimir e Alexandra quindi non sono solo separati nello spazio, ma anche dal tempo, tanto che a un certo punto nelle loro lettere non si rispondono più l’un l’altro.
La scrittura dell’autore di Capelvenere (Grinzane-Cavour 2007), così come emerge da Punto di fuga, è intimista, evocativa, empatica, non convenzionale. È anche complessa, passando da descrizioni della natura, come la pioggia sul tetto di una dacia o il profumo dei tigli in fiore, a descrizioni forti e drammatiche, da ricordi a riflessioni esistenziali. Un modo di scrivere che conquista, travolge, sconvolge il lettore e può anche far aprire gli occhi, portandolo per mano a vedere sia le crudeltà sia le contraddizioni sia le meraviglie del mondo in cui viviamo. Lo scrittore diventa quasi un Virgilio che può indicare la strada giusta da seguire, un faro che può far vedere sotto un’altra prospettiva il vero valore di ciò che da tempo avevamo sotto il naso.
Credit: Mikhail Shishkin by englishpen is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.