Carlo Ancelotti è una rarità nel variopinto, variegato e deteriorato mondo del calcio. Viene da Reggiolo, campagna emiliana, e la sua cultura contadina gli ha impedito di perdere il senso delle proporzioni. È sempre stato così: un uomo semplice, uno che non si è mai montato la testa, che non se l’è mai tirata, come dicono a Roma.
Alla capitale è legato in modo viscerale, tanto che ripete spesso come un mantra: “Un giorno o l’altro allenerò la Roma”. Ci ha giocato per otto anni, dal 1979 al 1987, vincendo uno scudetto nel 1983 con Nils Liedholm in panchina. Ha in comune con lo svedese la visione ottimistica della vita, la capacità di sdrammatizzare, un senso dell’umorismo così raro nel mondo del calcio, abituato a prendersi troppo sul serio.
Un grave infortunio al ginocchio alla fine dell’83 ne mette in dubbio il prosieguo della carriera. Però Carlo ha la scorza dura, si riprende, torna in campo e diventa un giocatore chiave anche nella Roma di Eriksson.
Ma Dino Viola, il presidente dello scudetto, ritiene che Ancelotti abbia imboccato il viale del tramonto, pensa che abbia dato tutto e nel 1987 lo cede al Milan non come un ferrovecchio, ma quasi.
Alla corte di Sacchi, Carlo vive invece una seconda giovinezza: vince uno scudetto e due coppe dei Campioni, diventa un giocatore fondamentale dello scacchiere rossonero.
Un nuovo infortunio lo costringe ai box nel 1988. Ma è meno grave, si tratta della rottura del menisco. Ancelotti decide di affidarsi nuovamente alle mani del professor Lamberto Perugia, che gli aveva ricostruito il ginocchio cinque anni prima. Dalla redazione mi spediscono alla clinica Villa Bianca di Roma, dov’è programmato l’intervento intorno alle 9 del mattino. Carlo viene avvertito dall’ufficio stampa del Milan, saremo l’unica televisione ammessa.
Mi presento a Villa Bianca poco prima di mezzogiorno e ci fanno subito salire nella stanza: Ancelotti è disteso, sorridente, ci salutiamo, scambiamo due chiacchiere. Poi gli faccio: “Carlo, quando vuoi noi siamo pronti”. E lui: “La facciamo subito, ma non qui, non voglio che mi vedano col gambone. Scendiamo in giardino e la facciamo in piedi”. Qualche mese dopo Ancelotti sarebbe stato grande protagonista della cavalcata trionfale che portò alla conquista della prima coppa dei Campioni dell’era Berlusconi-Sacchi nella finale di Barcellona contro la Steaua Bucarest, con il Camp Nou riempito da 98 mila milanisti.
Ancelotti farà poi parte della nazionale di Azeglio Vicini, eliminata dall’Argentina a Napoli nella semifinale dei Mondiali del ’90. Carlo non gioca quell’infausta partita, mentre Maradona trascina i suoi a un successo tutto sommato inatteso. Il giorno dopo, all’Hotel Parco dei Principi di Roma, la Federcalcio organizza l’ultimo incontro stampa con il CT e i giocatori. Incrocio Ancelotti e gli chiedo quanto sia deluso: “Eravamo convinti di vincere – mi risponde – ma nel calcio non c’è nulla di certo”. “Magari – gli dico – se tu non fossi rimasto in panchina e ti fossi dedicato alla marcatura di Maradona, il risultato avrebbe potuto essere diverso”. “Questo lo dici tu” fu la sua risposta tagliente come una sentenza.
Passa un po’ di tempo, Ancelotti appende gli scarpini al chiodo e Arrigo Sacchi lo chiama subito nello staff tecnico della nazionale che stava preparando i Mondiali di Usa ’94. A Natale del 1993 mi trovo in vacanza a Sharm El Sheikh, una località sul Mar Rosso ancora poco conosciuta. Un giorno, mentre mi sto spalmando la crema solare, sento una botta sul sedere, mi giro di scatto e mi appare Carlo Ancelotti con le pinne in mano. Scoppiamo a ridere mentre gli dico: “Ma che ci fai qui?” E lui: “Ma che ci fai tu? Io ci vengo già da un po’, sto acquistando una casa. Questo è un paradiso a tre ore d’aereo dall’Italia, ma non diciamolo tanto in giro, altrimenti diventa come Rimini ad agosto”. Evidentemente qualcuno non ha tenuto il becco chiuso, perché in effetti negli anni successivi Sharm conoscerà uno sviluppo turistico esponenziale, con alberghi e resort che cresceranno come funghi.
Ritrovo Ancelotti alla vigilia della finale di Champions League del 2003 all’Old Trafford, lo stadio del Manchester United. È un inedito derby italiano tra Milan e Juventus. Con il compianto collega Alberto D’Aguanno seguiamo la rifinitura dei bianconeri di Lippi dal tunnel degli spogliatoi e, in attesa del cambio della guardia con l’ingresso in campo dei rossoneri, chiacchieriamo con Carlo Ancelotti.
La prima cosa che mi chiede è: “Che si dice a Roma?”. “Ti aspettano, Carlo” gli rispondo. E lui: “Digli che prima o poi arrivo, ho ancora l’appartamento dove abitavo quando giocavo. Si trova in via Beata Vergine del Carmelo, a Mostacciano”. “Allora potremmo diventare vicini di casa – gli dico – perché so qual è la tua casa, io abito a 500 metri da lì”. Mi fa un sorriso, mi strizza l’occhio e raggiunge il Milan schierato a centrocampo. In realtà non ci sono mai state le premesse perché Ancelotti si accomodasse sulla panchina della Roma. Anche perché nel frattempo il livello del suo ingaggio è lievitato a quote inavvicinabili per la società giallorossa.
Nel febbraio del 2009 all’Olimpico è in programma Lazio-Milan. Come al solito, arrivo con largo anticipo perché debbo fare il bordocampo, e a un’ora e mezza dal fischio d’inizio dal sottopassaggio sbuca Carlo Ancelotti. Mi viene incontro, ci abbracciamo e poco dopo alle sue spalle arriva Leonardo, all’epoca dirigente rossonero. E Carlo fa: “Ti presento il futuro allenatore del Milan”. Sembra una battuta e come tale la interpreto. Peccato che invece fosse una notizia che io non mi sento di dare perché la reputo inverosimile. Pochi mesi più tardi si sarebbe conclusa dopo otto anni l’epopea milanista di Ancelotti, che si trasferirà al Chelsea. E a prendere il suo posto sulla panchina del Milan è proprio Leonardo.
Ma torniamo a Lazio-Milan, che seguo a due metri da Ancelotti. Nel regolamento della Lega, sottoscritto dalle televisioni a pagamento, la figura del bordocampista viene delineata con precisione. Soprattutto viene spiegato quello che il giornalista può fare e quello che non può assolutamente fare. Il divieto più netto riguarda i rapporti con le panchine: è vietato parlare con allenatori e giocatori, ma soprattutto è vietatissimo dare indicazioni su ciò che accade in campo.
A un certo punto c’è un episodio dubbio in area laziale, ascolto nell’auricolare Sandro Piccinini che, dopo aver visto il replay dell’azione al rallentatore, sentenzia: “Rigore clamoroso per il Milan non visto dall’arbitro”. Carlo capisce che sto seguendo la moviola in diretta e mi chiede: “Era rigore vero?”. Con il quarto uomo a due metri da me in marcatura strettissima non posso che rispondergli: “Mister, lo sa che non posso parlare con lei”: E lui: “Bell’amico che sei!”. Ci guardiamo e scoppiamo a ridere di gusto, mentre il quarto uomo alza il pollice in segno di approvazione per il mio comportamento irreprensibile.
Ma c’è un ultimo episodio che secondo me rappresenta alla perfezione chi è Carlo Ancelotti. È la stagione 2000-2001, quella dello scudetto della Roma di Capello conquistato in volata sulla Juventus di Ancelotti. Con il campionato ancora in bilico, la Juve decide di rinnovare il contratto di Ancelotti, nonostante lo scudetto perso l’anno prima nel diluvio di Perugia. Ma il DS bianconero Luciano Moggi escogita una formula senza precedenti nei contratti con gli allenatori: abbassa la base dell’ingaggio e applica dei premi a vincere piuttosto sostanziosi. Ancelotti lo scambia per un segnale di fiducia e firma senza pensarci su. Ma a fine stagione la Juve lo scaricherà per affidare nuovamente la squadra a Marcello Lippi, proprio il predecessore di Ancelotti.
Ai primi d’aprile del 2001 mi chiama Totò Lopez, ex centrocampista di Bari, Lazio e Palermo, con il quale c’è un rapporto di amicizia. “Daniele – mi dice – ho bisogno di una cortesia, se ti è possibile. Mia nipote sta per laurearsi in Economia e Commercio con una tesi sui contratti a obiettivo, riferito a manager d’azienda. Le piacerebbe conoscere i dettagli del rinnovo appena firmato da Ancelotti con la Juve, perché le permetterebbe di arricchire il suo lavoro. Io ho una conoscenza superficiale con Carlo, non saprei come arrivarci, magari tu lo conosci meglio di me. Puoi darmi una mano?”. “Ci provo – rispondo – e ti faccio sapere”.
Io non avevo all’epoca il telefono di Ancelotti e quindi mi arrovello per farmi venire un’idea. Decido di scrivere una lettera a Carlo in cui spiego tutta la storia, del resto lui sa chi è Totò Lopez, e gli lascio il mio numero di cellulare. Poi la invio per posta interna Mediaset a Gianni Balzarini, il collega che segue la Juventus da anni, pregandolo di consegnarla ad Ancelotti alla prima occasione.
Il 3 maggio, tre giorni prima di Juventus-Roma, la partita che avrebbe di fatto deciso lo scudetto, mentre sto parcheggiando al circolo per andare a giocare una partita di tennis, squilla il cellulare.
È un numero sconosciuto, rispondo: “Ciao Daniele, sono Carlo”.
“Carlo chi?”.
“Carlo Ancelotti, che fai, rinneghi gli amici?”
“Scusami, non ho il tuo numero e non mi aspettavo che tu mi telefonassi. Come, va? Domenica avete un grande possibilità, state meglio della Roma”.
“Sì, sembra così. Ma loro sono davanti e noi siamo condannati a vincere, altrimenti addio sogni di gloria (La Juventus si portò sul 2 a 0, ma la Roma riuscì a rimontare e a chiudere sul 2 a 2. Fu l’ultimo grande ostacolo sulla via dello scudetto).Volevo dirti che ho letto la tua lettera, puoi dire alla nipote di Totò Lopez di chiamarmi quando vuole, dalle il mio numero”.
Ecco cosa significa non perdere mai il senso delle proporzioni e rimanere umili. È una dote che solo i grandi possiedono. Anche se ti chiami Ancelotti e hai vinto dovunque: al Milan, al Chelsea, al Paris Saint Germain, al Real Madrid, al Bayern Monaco.
Credit foto in apertura: Carlo Ancelotti by PSG World ©