Nel dicembre del 1976, superati i mille problemi politici che ne avevano ostacolato la spedizione, l’Italia del tennis parte finalmente alla volta di Santiago del Cile per disputare la finale di Coppa Davis.
La squadra anticipa di qualche giorno l’arrivo di giornalisti, tifosi e familiari dei giocatori. Io sono un giovane che sta cercando di avviarsi a fare il giornalista, ho 24 anni e un cassetto pieno di sogni. Alloggiamo tutti nello stesso albergo, soluzione impensabile per una squadra di calcio, ma il tennis è un’altra cosa, anche se in realtà questa promiscuità causerà qualche piccolo problema.
L’hotel Sheraton sorge sulla collina di San Cristobal, una zona residenziale di Santiago. Appena tre anni prima, il Cile era stato scosso da un colpo di stato militare che aveva fatto fuori Salvador Allende, il primo presidente socialista eletto democraticamente in uno Stato sudamericano.
Con il Paese allo stremo dopo un lungo boicottaggio economico orchestrato dagli Stati Uniti di Richard Nixon, con l’aiuto della Cia e di alcune multinazionali come l’azienda telefonica AT&T, nel settembre del 1973 la giunta militare presieduta dal generale Augusto Pinochet assesta la spallata finale.
Un viaggio lunghissimo
Il palazzo presidenziale della Moneda, in pieno centro di Santiago, viene stretto d’assedio e sottoposto a un bombardamento aereo da parte dell’aviazione del generale Leigh, mentre dalla piazza antistante i carri armati sparano colpi di artiglieria pesante. Allende resiste all’attacco circondato dai suoi fedelissimi, poi si suicida per non cadere nelle mani dei golpisti. O almeno questa fu la versione ufficiale, messa subito in dubbio dalla stampa mondiale.
La repressione fu durissima, durante la prima settimana la mano di Pinochet fu molto pesante per mettere a tacere l’opposizione. Il bilancio dei dissidenti uccisi non si è mai conosciuto, ma si parla di decine di migliaia di persone scomparse nel nulla.
Qualche giorno prima della partenza ricordo di aver visto su un quotidiano la foto dei prigionieri politici detenuti all’interno dell’Estadio Nacional, che nel 1962 era stato teatro della finale dei Campionati del Mondo vinta dal Brasile sulla Cecoslovacchia. Questo è il Paese che ci attende.
È un viaggio lunghissimo quello che ci porta a Santiago: da Roma a Madrid, da Madrid a Buenos Aires, dove l’aereo denuncia un’avaria durante un controllo a terra, costringendoci a oltre cinque ore di attesa per la riparazione. Infine l’ultimo balzo sopra la Cordigliera delle Ande.
Santiago ci accoglie con un sole splendido, è estate piena, il cielo è terso, l’aria leggera perché la capitale sorge a 570 metri d’altezza. Ci prepariamo per il controllo passaporti che ci avevano annunciato molto accurato. Invece è una passeggiata di salute. Tranne che per il collega Giancarlo Baccini, inviato del Messaggero, in fila davanti a me. Baccini era stato uno dei più convinti assertori del boicottaggio della finale di Coppa Davis, per non dare visibilità alla dittatura di Pinochet. Quando porge il suo passaporto al poliziotto di frontiera, questi non lo apre neppure, glielo restituisce e sfoderando un bel sorriso gli dice: «Benvenuto in Cile signor Baccini». Giancarlo mi confessò che in quel momento gli si era gelato il sangue nelle vene: sapevano benissimo chi era e cosa aveva fatto per non venire a Santiago.
Arriviamo allo Sheraton San Cristobal, presentiamo i documenti, ci assegnano le stanze e saliamo per fare una doccia dopo un viaggio a dir poco faticoso. Subito mi salta agli occhi il telefono sul comodino: la marca è At&T: non posso fare a meno di pensare al golpe. Mi affaccio dalla mia camera che dà sull’esterno dell’albergo e lo sguardo abbraccia tutta Santiago sotto di me.
Tutti giornalisti
Disfo la valigia, mi infilo sotto la doccia, bollito come sono dalle 25 ore di viaggio e dal jet lag. Poi mi rivesto e decido di scendere nella hall, dove incrocio i giocatori di rientro dall’allenamento. Mentre sto chiacchierando con Nicola Pietrangeli, mi si avvicina un signore in giacca e cravatta che si presenta affermando di essere un giornalista della Tv cilena. Mi chiede se i giornalisti italiani siano interessati a una visita di Santiago. Naturalmente diciamo di sì e con altri colleghi ci imbarchiamo in un mini van che ci scarrozza in giro per la capitale. Il giornalista cileno ci dice: «Vedete, qui nessuno spara per le strade, non ci sono soldati in giro». E in effetti non ne vediamo, almeno in divisa.
Ci porta nella piazza sulla quale si affaccia il palazzo presidenziale della Moneda. Un grande cartello spiega che il palazzo è sottoposto a restauro. In realtà, dopo il bombardamento dell’aviazione cilena in occasione del colpo di Stato del 1973, erano rimaste in piedi solo le mura perimetrali. Invece i palazzi che si affacciano sulla piazza sono crivellati da fori di artiglieria pesante.
Mentre passeggiamo, veniamo fermati in continuazione da persone che ci dicono tutte la stessa cosa: «Benvenuti in Cile, siamo amici dell’Italia. Noi stiamo bene, siamo felici». Avendo girato un po’ il mondo, la cosa mi sorprende, perché non mi è mai successo, né prima né dopo quel giorno, che la gente mi fermasse per strada per spiegarmi con entusiasmo di essere felice. Scatto un sacco di foto con la mia Nikon F, dato che al rientro ho intenzione di realizzare un album su questa splendida avventura.
Dentro quello stadio
Quindi il nostro amico sedicente giornalista ci chiede se vogliamo vedere dove si sarebbe disputata la finale di Coppa Davis e ci dirigiamo verso la periferia della città dove sorge l’impianto, molto simile al Foro Italico di Roma: da una parte l’Estadio Nacional e a 300 metri di distanza il circolo del tennis con il campo centrale, che visitiamo rapidamente.
Poi la nostra guida, forse immaginando i nostri pensieri, ci chiede se siamo interessati a entrare dentro lo stadio di calcio. In quel momento mi passano davanti le immagini del lager pieno di prigionieri politici, pubblicate da tutti i giornali fino a una settimana prima. Apprendemmo successivamente che l’Estadio Nacional era stato “bonificato” prima del nostro arrivo.
Nel momento in cui ci spalancano i cancelli ed entriamo sul terreno di gioco mi vengono i brividi. La nostra guida ci dice che possiamo fotografare tutto, ma è dispiaciuto di non poterci mostrare gli spogliatoi e i sotterranei, perché sono in ristrutturazione. Scatto parecchie foto dal centro del campo verso le tribune, immortalo il gruppo dei colleghi.
Il mistero dei rullini
Rientrato in Italia, sviluppo personalmente i rullini impressionati a Santiago (allora si usava ancora la pellicola), credo 6 o 7 in bianco e nero da 36 pose l’uno. Misteriosamente le uniche foto che mancano all’appello sono proprio quelle di questa “giornata particolare”. Che fine hanno fatto? Non sono mai riuscito a trovare una spiegazione plausibile, se non questa: qualcuno si è introdotto in mia assenza nella stanza dello Sheraton dove dormivo e ha sostituito “quel” rullino con uno vergine che ho utilizzato per le foto dei giorni successivi, tutte regolarmente sviluppate e stampate nella mia camera oscura.
Una cosa mi è apparsa subito chiara: non so se questo signore fosse davvero un giornalista, ma certamente tutta l’operazione puzzava lontano un miglio di propaganda di regime. Quel regime, come mi raccontano i tassisti che incontro in quei giorni a Santiago, che si rese responsabile di migliaia di morti misteriose. «Per una settimana» mi riferisce un tassista «le acque del rio Mapocho (il fiume a carattere torrentizio che scende dalle Ande e bagna Santiago) sono state piene di cadaveri galleggianti e l’acqua era arrossata dal sangue delle vittime».
Incontro anche parecchi italiani, a Santiago ce ne sono circa 30 mila: professionisti, imprenditori, gente che se la passa piuttosto bene. Tutti dicono peste e corna di Allende, accusato di essere un comunista, di aver fatto arrivare un sacco di cubani e di aver impoverito il Paese, mentre sono naturalmente soddisfatti del regime instaurato con la forza da Pinochet.
Intanto, durante il nostro soggiorno a Santiago, è ancora in vigore il coprifuoco dalle 22 di sera alle 6 di mattina, e chi viene pescato in giro passa guai seri. Proprio per evitare problemi, un illustre collega che aveva fatto visita a una seria professionista del sesso e, preso dall’entusiasmo si era dimenticato del coprifuoco, è costretto a trascorrere la notte nella casa d’appuntamenti.
Per chiudere la “giornata particolare” il nostro amico “giornalista” ci accompagna in albergo e ci saluta dandoci appuntamento al giorno dopo al circolo del tennis. Non l’abbiamo mai più rivisto. In compenso il Mercurio, il primo quotidiano di Santiago, notoriamente vicino alla giunta militare di Pinochet, pubblica un articolo con le nostre foto durante la visita turistica alla città e ci attribuisce, con tanto di nomi e cognomi che nessuno ha mai fornito, una serie di dichiarazioni entusiastiche sull’accoglienza ricevuta dai cileni. Tutte parole inventate di sana pianta. Ma non ci è sembrato il caso di chiedere una smentita.
Foto in apertura. Da sinistra: il capitano non giocatore Nicola Pietrangeli, Paolo Bertolucci, Adriano Panatta e Corrado Barazzutti al rientro in Italia dopo la finale di Coppa Davis 1976 in Cile, dove all’Estadio Nacional di Santiago superarono i cileni per 4 a 1.