John Wick (uncredited), Deadpool 2, uno spin-off di Fast & Furious: ecco qualche titolo dal cv di David Leitch, regista di Bullet Train, curriculum che è retroilluminato dal lavoro solitario e in società con Chad Stahelski nella celebre società di stuntmen 87Eleven.
Poi, aggiungiamo subito che Bullet Train ha propizie origini giapponesi – ah, il tema della vendetta, quale miglior aggancio per tenere uniti i vagoni di un folle treno nipponico che corre a razzo tra Tokyo e Kyoto? -, essendo il film tratto da un romanzo di Isaka Kōtarō, classe 1971, autore di pulp thriller e di manga di varia gradazione dall’hard boiled a disinvolte sottigliezze in stile Christie – Bullet Train è stato pubblicato a giugno da Einaudi con il titolo I sette killer dello Shinkansen e, come per l’altro romanzo tradotto di Isaka Kōtarō, La vendetta del professor Suzuki, si sono sprecati gli aggettivi “vorticoso” e “indemoniato”. E davvero la prosa del giapponese, che non conosce subordinate o frasi più lunghe di una riga, fila parecchio e bene (lo Shinkansen è il treno).
Comunque. Il film si apre sul solido cliché del killer problematico, che cerca di dare un senso alla propria vita, di conoscerne il karma: ed ecco il fifty something quasi sixty Brad Pitt, nei panni dello sfigato ma aitante Ladybug, che assume dubbioso un compito, spinto dalla fidata committente. C’è infatti Sandra Bullock, in voce e cameo, a pilotarlo nei pasticci, grandissimi pasticci, come appena accaduto nell’avventuroso The Lost City. Ma c’è soprattutto questo bullet train, il treno proiettile ad altissima velocità che da il ritmo alla storia – fa al massimo 60 secondi a fermata – e diviene esso stesso una metafora della vita spericolata, strapieno com’è di passeggeri/killer, ciascuno con regolare pseudonimo (Tangerine & Lemon, Wolf, Hornet…), i cui destini si scoprono fatalmente connessi e filanti verso la fatale banchina dove attende Morte Bianca, l’uomo crudele che ha in mano l’intera malavita del luogo… Eh sì, siamo saliti su un fulmineo Orient Express imbottito però di personaggi che piacerebbero a John R. Lansdale – quello di Pitt, forse, di sicuro i due gemelli molto diversi dediti a un interminabile sproloquio. E poi nel gruppo spicca Prince, all’apparenza una ragazzetta ammodo, che però stringe tra le mani, quasi per vezzo, Shibumi di Trevanian: guarda caso, il romanzo narra di un occidentale, Nicholai Hel, che impara in Giappone come si diventa un assassino e forse, per l’origine russa, Hel rimanda al “nostro” Morte Bianca.
Comunque. Bullet Train rispetta in pieno la ricetta di Leitch per creare un buon action movie, ricetta che, proprio perché il regista è partito dalla manovalanza, cioè dalla più concreta vita di set, si rivela basica ed efficace: è molto bravo chi complica virtuosisticamehte una action sequence (e qui ci sono godibili gag, per esempio quella nel “vagone silenzioso”) ma soprattutto chi fa sì che l’azione dia allo spettatore notizie in più del carachter coinvolto. Alla fine, conosciamo assai bene tutti e, sebbene si chiuda un po’ storditi, di certo andremo a ricercare gli originali tra le secche pagine di Isaka Kōtarō.