Questa che state per leggere è una microstoria. Un viaggio nella memoria generato da una festa di compleanno. Contesto notoriamente assai più rischioso di un soggiorno a Zaporižžja.
Sono sempre stato affascinato da quella branca della storiografia che va sotto il nome di microstoria. Nata sul finire degli ’70, è una metodologia d’indagine i cui esponenti prendono criticamente le distanze dalla concezione della storia come attività retorica che interpreta testi e non eventi. Le microstorie prendono le mosse da prospettive personali poiché secondo questa ipotesi di ricerca “ogni configurazione sociale, culturale, economica è il risultato dell’interazione di innumerevoli strategie individuali… laddove le strategie sono opzioni all’interno di campi di possibilità… spinte da sentimenti, credenze, motivazioni; hanno in sé i caratteri del progetto e quelli della necessità”. Un nome fra tutti, Carlo Ginzuburg, di cui mi piace ricordare in particolare Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del Cinquecento (Adelphi) e Il filo e le tracce. Vero falso finto (Feltrinelli). Fine della premessa.
Programmata con largo anticipo, la festa si sarebbe svolta il giorno 17 di agosto. Il festeggiato, un ineffabile settantenne di quelli che non hanno nessuna intenzione di smettere di fare ciò che hanno sempre fatto, ha avuto un piccolo colpo di genio trasformando il proprio compleanno in appuntamento dedicato alla compagnia dei bagni G.
Com’è noto, se peggio dell’invecchiare c’è solo il morir giovani, non c’è nulla di più deprimente dei genetliaci delle persone adulte. Le feste di compleanno dovrebbero essere territorio di esclusiva competenza infantile; con un po’ di incoscienza, possono essere estese sino all’adolescenza e alla prima primissima giovinezza. Tutto il resto rischia di diventare triste parodia foriera di melanconie esacerbate da Scilla e Cariddi della nostalgia e dei rimpianti (“se avessi compreso, se avessi fatto, se avessi scelto “a” invece di “b”, se mi avesse amato, se l’avessi amata, se…”) che costringono il festeggiato a bilanci che non è mai saggio né sensato compiere. Insomma, per farla breve in questa microstoria il festeggiato divenuto festeggiante ha estratto la bacchetta magica e… oplà la calamità ha mutato segno ed è diventata emozione.
La piccola città di C. sta nella Liguria di Ponente. Precisazione non del tutto oziosa ai fini della microstoria. Esiste una differenza palpabile tra Liguria di Levante e Ponente. Netta al punto da confermare la distinzione che corre tra Occidente e Oriente. L’abbiamo colta nuovamente dopo aver trascorso l‘ennesima faticosa giornata nel fragore volgare di R. Ripetutamente stuprata dalla speculazione edilizia l’elegante città amata da Ezra Pound, Yeats ed Hemingway non esiste più. Oggi è una fabbrica di cacofonie contesa da torme di magrebini con moglie velate, anziani in difficoltà deambulatorie sul lungo mare, masse popolari in gita premio nel suk dei vicoli che provano a sovrastare con il loro vociare gli infiniti epigoni di Briatore al volante di improbabili Lamborghini. Un incubo di traffico, rumore, di motorini, di strade costellate di rifiuti e cartacce, servito con sapiente indifferenza dalla leggendaria ospitalità dei commercianti liguri, al confronto dei quali gli osti ceceni sono diplomati in xenìa.
La piccola città di C. non è poi così piccola. Appare irriconoscibile agli occhi della persona che l’ha vissuta nel tempo prima da infante, poi da bambina, da adolescente, da giovane donna e, a chiusura del circolo della vita, da madre. Una patina di sottile ma consistente chic ha coperto i vicoli storici alzandone tono, prospettive e – ringraziando iddio – pure frequentazioni. Non è un peana alla gentrificazione che pure è sovrana, solo la constatazione del garbo mostrato dal passante che incroci: quella normalità perduta fatta di buon senso prim’ancora che di civile educazione. Un fatto culturale, direbbero forse i “microstorici”. Un fatto sperimentato nella sera più complicata dell’anno. Inconsapevoli, siamo capitati a C. il giorno in cui si celebra la notte bianca, la festa nella festa che unisce musica, spettacolo in piazza, offerta enogastronomica e bancarelle a go-go. Il piccolo paese della memoria che era C. si trasforma, proprio come accade al Prè Catelan di Proust, irriconoscibile agli occhi dell’incauto lettore che ha commesso l’affettuosa sciocchezza di volerlo vedere al di là della pagina scritta.
La piccola citta di C., non più così piccola agli occhi di chi l’ha conosciuta bambina, il giorno dopo il diluvio di gente, di cibo, di canti e di suoni pare una città svizzera in preda all’ascesi calvinista tanto è linda in ogni anfratto. Eppure, ci dà conferma un commerciante orgoglioso e stupito, il pubblico era strabocchevole e la festa è durata sino all’alba. Ma allora è possibile – si domanda il viaggiatore stupito – unire l’effimero al perenne, il sovrastrutturale alle fondamenta, l’eccezionale alla norma, il pane alle rose? Ci incamminiamo sul lungomare, la cana sguinzagliata e felice ci precede assennata, sino a raggiungere la galleria ferroviaria che soldi ben spesi hanno trasformato in galleria dell’arte ceramica. Lo stupore raggiunge lo zenith al ritorno alla vista della Biblioteca Comunale, un edificio che pare il frutto di un concorso internazionale tra archi-star ricavato da una (intelligente) ristrutturazione. Ma allora è possibile – si domanda nuovamente il viaggiatore -amministrare con saggezza anche nel Belpaese? La piccola citta di C. non più così piccola agli occhi di chi l’ha conosciuta bambina, è una (piccola) miniera di sorprese: anche la pineta secolare continua impavida a sorvegliare dall’alto l’insenatura che racchiude il paese.
Finalmente dopo una giornata di pioggia giunge l’ora della festa. Proprio il giorno prima avevo letto nel Lessico della propaganda barocca (Alessando Metlica, saggi Marsilio) notizie preoccupanti. L’autore fa riferimento agli studi del germanista e mitologo Furio Jesi, secondo il quale nella modernità la festa apparterebbe sempre alla sfera del negativo: “come accade per il mito, essa è ciò che non esiste, che non si può dare e che non si può riconoscere”. Pare che Jesi fosse molto rigoroso su questo punto: “nel presente nessuna festa è possibile”. In passato invece la festa diveniva un “istante privilegiato” in cui “la distanza tra uomini e dèi improvvisamente si accorciava, consentendo il disvelarsi dell’eidolon”. Argomento ne converrete su cui c’è poco da scherzare: Wikipedia avverte che “nella letteratura greca antica un eidolon è un’immagine spirituale di una persona viva o morta; un’ombra o un fantasma simile alla forma umana”. Oh perbacco, forse che alla festa della compa dei bagni G. del paese di C. compariranno i fantasmi?
Il mio timore era in realtà un altro. Temevo il micidiale effetto Proust. Chi ha avuto la fortuna di giungere al Tempo ritrovato, le ultime navate di quell’immensa cattedrale che è la Recherche, deve superare un’ultima prova: volgere lo sguardo sulla distruzione compiuta dal Tempo. È il punto di svolta e di arrivo dell’opera: in occasione di un’ultima festa a cui partecipa, il Narratore non riesce a riconoscere i volti altrimenti noti. Chi sono le figure che affollano le sale in festa? Il Tempo ha imposto maschere ai volti rendendoli irriconoscibili. (Ironia della sorte, il termine persona è voce di origine etrusca che significava propriamente “maschera teatrale”). Non appartenendo alla compagnia dei Bagni G. della piccola città di C. non avrei potuto difendermi neppure ricorrendo alla tenerezza degli affetti, alla dolcezza che conserviamo nella memoria dell’infanzia e della giovinezza.
Amo sopra ogni cosa il lieto fine. Purtroppo è quasi sempre sinonimo di posticcio, di orrenda melassa, di Doris Day in perenne passeggiata a piedi nudi nel parco e, per carità, niente sesso siamo americani anni ’50. Se è vero che l’arte – come la vita – è per definizione tragica, vorrei comunque impedire alla meravigliosa signora Karenina di gettarsi sotto il treno e, giusto per dire, cancellerei anche la cazzata del veleno di Tristano e Romeo. Insomma, darei persino una (piccola) possibilità anche a quella stordita della signora Bovary. Lo so, un disastro per l’arte.
Eppure la sera della festa sono stato fortunato: l’invenzione del festeggiato festeggiante ha avuto un esito più che felice. Come? Tornando all’assunto della microstoria (“ogni configurazione sociale, culturale, economica è il risultato dell’interazione di innumerevoli strategie individuali…”) ho scoperto con stupore che persone (non maschere) che si frequentano da più di mezzo secolo hanno saputo (hanno voluto) mantenere legami di vicinanza, amicizia, affetto. Hanno saputo (hanno voluto) continuare a giocare come giocavano nella loro adolescenza nella piazza di C. nelle estati di cinquanta anni fa. Una strategia individuale quando diviene collettiva segnala la presenza di una cultura comune e condivisa. A ma piace chiamarla amore per la vita.
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