In un mondo in cui i brand assumono il profilo di persona, è abbastanza inevitabile che taluni individui divengano brand. Assunto particolarmente verosimile per le donne e gli uomini di spettacolo. Come i brand anche cantanti e attori devono durare nel tempo. E nel tempo produrre la più grande quantità di profitti. “È il mercato, bellezza” sussurra la vocina del liberale di sinistra che litiga costantemente con se stesso dentro me. “È il mercato dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” gli fa eco il fantasma di Benjamin che viene a farmi visita tormentandomi con domande su Koons, Damien Hirst o su Marina Abramović a cui non so dare risposta.
Un tempo le donne e gli uomini di spettacolo si chiamavano cantanti, ballerini o attori. Adesso si fanno chiamare artisti. Questo aumenta la mia confusione e la mia ammirazione per la dismisura dei loro ego. Resta il problema di come chiamare Raffaello Sanzio, Mozart e Bach padre. Ma anche questo pare non abbia mai creato difficoltà a De Gregori, giusto per citarne uno che non ha dubbi in proposito.
Gli “artisti contemporanei” praticano l’arte della lunga durata. Come il Siddharta del pur valido Hermann Hesse, come l’insopportabile Piccolo Principe del Signor de Saint-Exupéry, hanno conquistato lo status di long seller. Brand che perdurano da trenta, quaranta anni. Qualcuno persino da più di cinquanta. L’esempio sovrano lo dà l’inossidabile Mick Jagger. Nato nel 1946, sgambetta sui palcoscenici di tutto il mondo a partire dal lontanissimo 1962 e ancora non mostra di averne basta come dicono nel Monferrato. Ci siamo capiti. Resta invece da comprendere quale sia il segreto della lunga durata di un personaggio come di un brand. Purtroppo questa volta neppure gli storici sono di grande aiuto (“Longue durée è un termine utilizzato dalla scuola francese degli storici delle Annales per designare il loro approccio allo studio della storia, che dà la priorità alle strutture storiche di lunga durata piuttosto che agli eventi”) e fare ricorso ai mitografi e alla mitografia non credo aiuti più che tanto.
Diciamo che i grandi brand (come per esempio Dash, Coca-cola, Campari, Bmw, Mercedes e Ferrari) sono attentissimi a rispettare se stessi; fateci caso, nelle (tristi) pubblicità pensate da gente di norma in gambissima regolarmente avvilita dagli uffici marketing delle aziende, questo principio è espresso ricorrentemente dalla (triste) metafora del Dna. È nel nostro Dna qui, lo è là, più sotto e più sopra, dichiarano incessantemente. Qualcun altro, più intelligente o solo più furbo, scomoda la categoria dell’heritage, che a ben vedere fa comunque parte del côté biologico. Male, ma si rispettano. Sarà quindi impossibile cogliere in fallo Dash-persona in un atteggiamento razzista o anche solo scarsamente inclusivo. E Campari ci ricorderà che bere è bello (e ci mancherebbe altro!) ma bisogna bere responsabilmente e, per cortesia, vedete di non “disperdere il vetro”. Scrivono più o meno così con linguaggio da dame di San Vincenzo, mentre nel frattempo Ikea ci ricorda che i sacchetti di plastica – dopo aver strangolato il delfino – non sono giocattoli e possono strangolarci il pupo. Sono banali, costanti e coerenti come Pinocchio quando è diventato un noiosissimo bambino, prevedibili come il Mago Zurlì e rassicuranti come un dado per brodo svizzero. Devono piacere a milioni e milioni di persone, possibilmente per milioni e milioni di anni, generando milioni e milioni di profitti. (“È un pianista di piano bar / È un poeta di varietà / Non cercare di vederlo piangere / Perché piangere non sa”).
I grandi brand non hanno paura dell’ovvietà. Semmai delle class action. Non avendo timore di apparire scontati e banali, affermano con serena sovrana indifferenza la loro natura e la loro ragion d’essere: l’aperitivo socializza, l’auto fa brum-brum ma rispetta l’ambiente, il detersivo ti fa risparmiare sulla bolletta perché lava più bianco persino a 30° eccetera eccetera. Bene. Ma le donne e gli uomini di spettacolo, gli artigiani autoproclamatosi artisti? Che fanno, che dicono i brand umani e non?
Negli anni, nei mesi e persino nei giorni scorsi sono accadute un sacco di cose. Le persone hanno dovuto scegliere e in qualche modo schierarsi. A volte nessuno l’aveva chiesto loro. Ma l’hanno fatto (l’hanno dovuto fare?) per stanchezza, per protesta, per rabbia. Forse per sentirsi vivi. Così abbiamo assistito, a volte con stupore altre con sgomento, alle “dichiarazioni spontanee” più inattese e più sorprendenti. Tutti virologi (ricordate?). Poi tutti climatologi. E infine tutti geopolitici. Questo le persone. Anche coloro che sono brand di se stessi. Mentre i brand, molto più saggi, contenuti e controllati. Così è stato davvero sorprendente scoprire che il signor Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, intervistato da Il Venerdì di Repubblica si è rifugiato sulle corde come si direbbe in gergo pugilistico pur di evitare una banale e tutto sommato assai innocente domanda riguardante i fatti di Kiev. Non so, non sono preparato profe, non ho idee in proposito, suonava la sua scusa. Non male per uno che gira inarrestabilmente il mondo e si dichiara attentissimo all’ambiente, alle sostenibilità e al futuro del pianeta. La scelta di non scegliere è dovuta al timore che scegliere precluda una fetta di audience? Strano: i grandi brand (Dash & Co) sanno benissimo che non si può essere amati da tutti.
Se di questa triste vicenda ne abbiamo avuto contezza in quattro, molto più clamore ha suscitato la banana su cui è scivolata la signora Pausini. La povera ragazza ha dichiarato di non voler cantare Bella Ciao. “È una canzone molto politica e io non voglio cantare canzoni politiche” ha dichiarato. Il giorno dopo ha ribadito con un tweet: “Non canto canzoni politiche né di destra né di sinistra. Quello che penso della vita lo canto da 30 anni. Che il fascismo sia una vergogna assoluta mi pare una cosa ovvia. Non voglio che qualcuno mi usi per fare propaganda politica”. Che Bella Ciao sia l’inno di tutti gli antifascisti, che la Resistenza l’abbiano combattuta comunisti e democristiani, socialisti e monarchici, non le è passato nemmeno per la testa. Forse l’Ufficio Stampa non glielo ha mai detto povera cara.
Due indizi fanno una prova? I personaggi-brand non devono quindi schierarsi? Il signor Cherubini fa bene a non rischiare di scontentare i padri filosovietici di figli indifferenti? Mentre alla signora Pausini converrà star lontana pure dal coro del Nabucco, l’ennesima solfa di Ebrei che bramano il ritorno a Gerusalemme che poi come la mettiamo coi Palestinesi? “Tutti fermi! tutti zitti / Ché se vi vede Muscolo / Siete tutti fritti!”?
Per nostra fortuna – da, da, dam – prende la parola Chiara Ferragni, la persona-brand forte di 27,6 milioni di follower su Instagram, mica bruscolini sul sagrato di Faenza, la quale impavida dichiara: “Fate sentire la vostra voce… Quelle del 25 settembre per milioni e milioni di italiani saranno delle normali elezioni, le solite elezioni che porteranno alla formazione dell’ennesimo “governo ladro e corrotto” tanto odiato, per tante altre saranno una carneficina, rappresenteranno la nascita del governo più a destra in tutta la storia della Repubblica italiana”.
La pagina Instagram si chiama apriteilcervello. Sotto la testata, o come diavolo si chiama, compare il trittico
- Antifascista☮️ •Antirazzista🧠 •Lgbt+ supporter🏳️🌈
Davvero. Meglio non si potrebbe definire che persona-brand è Chiara Ferragni. Chapeau.