La fornace è un cupo reperto della civiltà industriale: per anni è stata l’ossessione di Konrad, agiato figlio di una famiglia di possidenti, che l’ha infine acquistata dissanguandosi e ora lì vorrebbe dedicarsi, in grandi stanze vuote misurate a lunghi passi e con la lucidità di un ossesso, a un misterioso e per lui essenziale saggio sull’udito – il suo sarebbe tra l’altro sviluppato a dismisura. Con Konrad, vive la moglie paralizzata, che odia la fornace e le terre attorno a Sicking, Alta Austria, in cui è di fatto prigioniera. La donna non sa che l’uomo, dopo aver comprato l’edificio, è andato in rovina e adesso, salvo un quadro feticcio di Bacon, ha venduto tutto il vendibile…
È Konrad furioso e il declino di una coppia e pure quello di un Paese e forse di una civiltà – ma quando mai c’è stato un apogeo e di quale civiltà si parla? -, che Thomas Bernhard (1931-1989), abile ad ampliare o restringere a dismisura i suoi bersagli, affronta ne La fornace (Adelphi). Bernhard si tiene a un tempo vicino e discosto da Konrad, vedremo subito come, e gli dà voce usando per sfondo un posto degradato, maledetto dalla solitudine e dall’infelicità – la fornace di calce mal amministrata e dismessa, quand’era in funzione ha causato solo sofferenza e morte agli uomini di Sicking.
Bernhard, dicevamo – e questo è e sarà un suo tratto distintivo -, accantona nel romanzo l’onniscienza stucchevole del narratore e scarta pure l’artificiosa prima persona del protagonista: si affida e appoggia alle testimonianze di fatti ineluttabili, perché già avvenuti, quasi firmasse un’opera compilativa o come se leggesse per noi un verbale impazzito, allucinato da tirate rabbiose in un vorticoso incastro di ripetizioni.
Ne La fornace, per esempio, ricostruiscono le gesta e il parlato di Konrad avventori d’osteria e due amministratori di terre, voci incorporee di uomini che lo hanno conosciuto e ne hanno raccolto le parole; sono loro che potrebbero aiutare a comprendere, in una sorta di estenuante deposizione, animata dalla raffiche di sentenze con cui Konrad rammenta a ogni piè sospinto l’insignificanza e la disgrazia degli umani, perché l’uomo ha ucciso con una delle sue carabine la moglie e si è nascosto nel fondo di un pozzo…
Gli insistiti “avrebbe detto Konrad a Wieser” e i “così Konrad a Fro” e i “sostiene” Wieser o i “sostiene” Fro cadono a centinaia nel testo come percussive richieste di fiducia riguardo allo svolgimento di questa terribile storia declinata al passato e accaduta in un altrove per quanto vicino – il sottinteso, la posizione di Bernhard, è con ogni evidenza che la più credibile delle versioni dei fatti di cui può disporre il lettore è di seconda o di terza mano… Comunque, di Wieser sappiamo appena che è l’amministratore della proprietà Mussner, il quale tra l’altro è stato assassinato da uomini andati in miseria; Fro della proprietà Trattner, assassinato anch’egli.
La fornace è quindi un romanzo referto, o un monologo per interposta persona, fondato su una serie ipnotica di parole e di concetti ripetuti, ripresi in loop quasi musicali, e queste ripetizioni – quasi che le ossessioni di Konrad procedano a folate che non trovano mai requie e si ripresentano di continuo facendosi sempre più violente – questa catena bernhardiana, allargandosi a poco a poco a nuovi eventi e nutrendosi spesso di apodittiche sentenze, rende conto con efficacia dello scacco patito dal protagonista del romanzo e con lui dall’umanità circostante (solo circostante?).
La vita, “avrebbe detto Konrad” e ne parrebbe convinto anche Bernhard, è una “commedia pura” impossibile da trasformare in tragedia. Da questa convinzione, il tono de La fornace, procedendo, accentua il lato grottesco – mescolando a piene mani il comico al drammatico – nel descrivere la vita deteriorata dalla malattia e dall’isolamento di Konrad e della moglie. Il saggio sull’udito, impossibile da mettere nero su bianco benché sia già scritto nella mente dell’uomo; la tortura di interminabili e assurdi esercizi fonici basati sulla lunghezza delle vocali; le letture infinite e alternate, per dispetto, del Kropotkin prediletto da lui contrapposto all’Ofterdingen di lei; l’immobilità progressiva di entrambi e la disastrosa incapacità di risolvere i più piccoli problemi materiali – persino ordinare i pasti al debosciato Höller, che vive nella dépendance, porta a inenarrabili querelles; il gelo e lo sporco che invadono la vecchia fabbrica, dove cessa di risuonare anche l’unica musica tollerata da Konrad, la sinfonia Haffner di Mozart… tutto si mescola nel testo furente di Bernhard, quando descrive la doppia disperazione e il doppio esilio di chi passa dall’antinferno della solitudine all’antinferno della vita in comune. Si va verso l’epilogo, e l’omicidio, che diviene inevitabile, è consegnato al giudizio di magistrati volubili a seconda di come gira il tempo atmosferico e ai cittadini austriaci, ciechi e tronfi nella loro stupidità, matti che da sempre demonizzano i matti.
Bernhard, con questo romanzo del 1970, pubblicato in italiano da Einaudi nel 1984 (e oggi riproposto in quella traduzione, di Magda Olivetti), indica un nuovo luogo, una nuova porta dell’Ade, dopo Amras e Ungenach, nell’Austria crudele e inetta, patria eletta della sua rete di ossessioni: i posti che Bernhard nomina sono rintracciabili sulla carta geografica eppure appartengono ormai di diritto alla sua mitologia personale e alla sua inimitabile arte nichilista, rabbiosa e disperata, comica e feroce, affascinante e derisoria.
Di T.B. abbiamo già parlato qui