Per noi reduci del Novecento, il giorno, ormai imminente, in cui si insidierà il governo guidato da Giorgia Meloni avrà un indubbio significato simbolico: potremo ricordare quella data come la fine della “prima Repubblica”. Ovviamente, come sempre avviene in questi casi, si tratta di una scelta arbitraria. Allo stesso modo l’Impero romano d’occidente è finito ben prima del 4 settembre 476, il giorno della morte del povero Romolo Augustolo. La “prima Repubblica” è cominciata a morire all’inizio degli anni Novanta, più o meno trent’anni fa: indubbiamente è stata una lunga e dolorosa agonia.
Meloni è giovane, molto giovane. Ma non abbastanza: ha fatto in tempo a militare nel Msi, seppur nella sua fase terminale, ossia in un partito che affonda le proprie radici nella storia della nostra Repubblica. Ma il Movimento Sociale non è mai stato un partito come gli altri, perché era la formazione politica di quelli che avevano perso la Guerra di Liberazione, era il partito fascista in un paese costituzionalmente antifascista. Naturalmente il Movimento Sociale aveva un proprio ruolo ben definito nella vita parlamentare e politica del paese, era un interlocutore istituzionale, anche se per lo più si preferiva tacere questi contatti, ma non poteva entrare al governo, proprio perché rappresentava un’anomalia: i missini erano fuori dal cosiddetto “arco costituzionale”, come si definivano i partiti, tutti gli altri partiti, protagonisti di quella stagione politica.
Nell’agonia della “prima Repubblica”, persone che hanno militato nel Msi sono già entrate nel governo, ma indubbiamente il fatto che il – o meglio la – Presidente del Consiglio sia una di loro indica che quel tempo è ormai concluso. Per sempre. Ed è a suo modo ironico che a dover dare l’incarico a una ragazza che ha cominciato a fare politica contro la riforma Jervolino e nel “fortino” di Colle Oppio, sia un vecchio notabile democristiano, quel galantuomo di Mattarella, che rappresenta, anche antropologicamente, quel mondo ormai perduto.
Al di là di questo dato, che per noi che c’eravamo ha un’indubbia rilevanza politica – e, a suo modo, sentimentale – non voglio dare a questo fatto altri significati. Ed evitiamo spericolati paragoni con quello che è avvenuto in questo Paese nell’ottobre di cent’anni fa. Il fascismo è stato una tragedia mondiale, con precise ragioni storiche e uno sviluppo complesso. Il fascismo è in buona sostanza una cosa seria, su cui dovremo continuare a studiare. Tra qualche anno il nome di Giorgia Meloni sarà dimenticato, come quelli dei tanti presunti leader che si sono succeduti in questi anni e che sembravano destinati a un luminoso avvenire. Questa stagione politica, in cui abbiamo deciso di fare a meno dei partiti, macina minuscoli leader a una velocità sempre maggiore e li distrugge con sempre più crudele voracità. Tra cinque anni – se non prima – il vento cambierà ancora e toccherà a un altro sedere a Palazzo Chigi.
Francamente in questa tornata elettorale il dato per me più preoccupante non è stato il risultato di Fratelli d’Italia, che ha almeno ancora la parvenza di un partito, ma il successo in Sicilia di un personaggio come Cateno De Luca, che ha ottenuto un quarto dei voti validi alle regionali e ha eletto alle politiche un deputato e un senatore. De Luca, soprannominato “Scateno”, è un personaggio fuori dalle righe e senza freni, l’uomo “del popolo”, che alimenta i peggiori istinti della “ggente”. E dopo l’inverno di “lacrime e sangue”, che ormai ci attende, con le fonti di energia razionate, con la crescita della disoccupazione e della povertà, personaggi come De Luca – e se possibile peggiori di lui – avranno sempre maggior fortuna. E forse arriveremo a un punto che dovremo perfino rimpiangere il “moderatismo” di Meloni e Salvini. O pensare a Berlusconi come a un garante delle istituzioni.
State sereni: il fascismo non tornerà. Perché il fascismo non serve. Cent’anni fa c’è stata la Marcia su Roma, perché c’erano stati nelle industrie scioperi durissimi, perché i contadini chiedevano la terra, perché stava crescendo una forte coscienza di classe, perché una rivoluzione era possibile, perché si poteva ancora sperare di “fare come in Russia”. Adesso che la sinistra sostiene che il capitalismo selvaggio sia la forma naturale dell’economia e che uomini come Draghi siano i salvatori della patria, adesso che l’opposizione sociale è morta, perché i padroni dovrebbero armare i fascisti? Il lavoro sporco lo abbiamo già fatto noi negli anni Novanta. Il governo Meloni sarà l’ennesimo governo piegato ai dettami delle istituzioni monetarie internazionali e degli interessi del capitalismo. Solo un po’ più volgare. Gli italiani vogliono che a Palazzo Chigi ci sia qualcuno che assomigli un po’ di più a loro, sono stanchi di vedere uno come Draghi che non rutta a tavola, non tocca il sedere alle segretarie, non si intasca qualche mazzetta, non sbaglia un congiuntivo. Sperano che Giorgia sia più maleducata degli ultimi premier che si sono succeduti a Palazzo Chigi. Se si impegna, credo possa farcela.
- Luca Billi ha pubblicato il romanzo Anything Goes (Villaggio Maori Edizioni), selezionato nella cinquina dei migliori libri musicali dell’anno dal premio CartaCanta
Nella foto, Giorgia Meloni nella campagna per le Europee del 2014