Le prime venti pagine di Il giovane Mungo (Young Mungo) di Douglas Stuart prese da sole potrebbero essere un racconto ideale per il New Yorker. L’adolescente Mungo – come San Mungo, venerato dalle parti di Glasgow, Scozia – viene consegnato dalla madre per un weekend a due adulti a lui sconosciuti, un anziano vagabondo e un trentenne tatuato, entrambi assai male in arnese. Come la donna, soprannominata Mo-Ma, St Christopher e Gallowgate frequentano senza profitto gli Alcolisti Anonimi. I due dovrebbero andare in gita a un lago nella Scozia Occidentale, piantare le tende e insegnare a Mungo come si getta un amo. La pesca dovrebbe essere miracolosa. Tre pullman dopo, persi chissà dove mentre viene buio, il whisky e le lattine di Tennent’s aperte e scolate dai due uomini hanno raggiunto un livello preoccupante, mentre si precisa la minaccia che avevamo subito avvertito addensarsi sulla testa del ragazzo: a disagio, scosso dai tic, e poco vestito, gela in giacca a vento e calzoncini corti…
La storia sul New Yorker si fermerebbe su un abbraccio ambiguo e una dubbia visione di stelle – nei racconti del New Yorker su cui peraltro Stuart, classe 1976, scozzese di stanza in Usa, pubblica, succede di rado davvero qualcosa, un fatto concreto, qualcosa di fisico oltre che psicologico. Ne Il giovane Mungo, invece, dopo il capitolo iniziale, si continua per 400 pagine che riportano gli eventi al “gennaio prima” della gita: di Mungo, della sua vita, del suo difficile diventare grande, sapremo tutto senza ellissi come nei romanzi tradizionali, quelli belli del 19esimo secolo, seguendo addirittura un percorso dickensiano.
Al debutto, con Storia di Shuggie Bain (Mondadori), vincitore a sorpresa del Booker Prize 2020, Stuart narrava di un grande amore, in assenza di padre, tra il bambino Shuggie e la madre, velleitaria e frustrata, che finiva protetta dal figlio giudizioso.
La vita di Mungo Hamilton ripete nei primi anni Novanta il teorema di Shuggie nell’East End, quartiere protestante della working class di Glasgow. C’è anche qui una famiglia senza guida maschile, con madre ubriaca al disastro e momentaneamente sparita, e i figli che fanno a modo loro: il bullo capo banda Amish, occhialuto ma feroce delinquente di strada, la testarda e mai arrendevole Jodie, e il piccolo Mungo appunto – quindicenne – che è più sensibile che fragile e ama la sua Mo-Ma disperatamente.
Lo sfondo di una civiltà patriarcale andata in pezzi è un correlativo oggettivo adeguato alla vicenda. La Scozia, nota con malizia Stuart, è stata appena “castrata” da una donna, Margaret Thatcher: la Lady di Ferro ha lasciato il governo da due anni, al grigio John Major, ma il suo nome è sempre nell’aria – l’industria pesante in difficoltà, i cantieri chiusi sul Clyde e le miniere dismesse di Cardowan hanno riempito Glasgow di disoccupati. Nel tenement umile ma decoroso, dove abitano gli Hamilton, a un passo dalle nuove e già spettrali torri residenziali di Sighthill – stavano lì i nonni di Shuggie -, le femmine si arrabattano, i maschi stanno tutto il giorno davanti alla tv, a guardare le corse di levrieri all’ippodromo di Ayr, e se i Rangers perdono il derby con i cattolici del Celtic le picchiano.
Ma alla seconda prova, Stuart compie un passo in più, e racconta, accanto a quello per la madre, il nascere del primo vero amore adulto di Mungo, quello per James Jamieson, coetaneo feniano – e per questo potenziale bersaglio del villain Amish. James è un altro orfano di fatto, che ha costruito una colombaia e lì trova rifugio alla solitudine in mezzo ai suoi volatili da competizione.
Su ciò che nasce tra i due ragazzi – qualcosa di timido e quasi non dichiarabile all’inizio, in una notte trascorsa insieme a letto, dapprima testa-piedi, dopo aver guardato in tv comici inglesi che non fanno ridere – sul primo passo, che potrebbe essere quello di confessarsi l’un l’altro il proprio dolore, pesa immediatamente l’ombra del futuro, la quale per chi legge coincide con l’incipit stesso del romanzo. Il viaggio al lago, che vediamo svilupparsi a capitoli alterni con le vicende che lo precedono, introduce un forte motivo di suspense: è una pericolosa passeggiata nel buio che può non contemplare il ritorno.
Abbiamo svelato poco o niente, più che altro per notare come Douglas Stuart ha saputo sdoppiare e riunire la sua storia, facendo riverberare (e forse deflagrare) un episodio rappreso, delimitato nel tempo, all’interno di una narrazione più distesa, in cui può concedersi ricchezze d’altre epoche nell’esporre virtuosisticamente all that David Copperfield kind of crap (Holden Caulfield dixit).
Il tema omosessuale è affrontato in progress – tagliato formalmente sul tempo in cui è possibile, e ammissibile, per Mungo scoprire la propria identità sessuale e sentimentale: conformismo e volgare disprezzo dominano anche nell’East End proletario dove gli scapoli gentili sono trattati al pari di zitelle freak. Sarà la violenza che alberga e può scoppiare ovunque – la violenza sperimentata nella propria vita da tante persone queer – a presentare il conto al giovane Mungo, costretto a battersi e a cercare un luogo sicuro dove (forse) lui e James potranno essere insieme. Non per caso, la colonna sonora, vintage, su musicassetta è Panic degli Smiths.
Traduzione di Carlo Prosperi. Nella foto di apertura, particolare della foto di copertina The Cock (Kiss) by Wolfgang Tillmans
Di Stuart e Shuggie abbiamo già parlato qui