Che succede se per due volte durante la tua esistenza la gente crede che tu sia morto? No, non è una domanda bizzarra. È quanto è accaduto veramente allo scrittore Paolo Nori, grande esperto di letteratura russa (l’ultimo suo libro è Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostojevskij) e docente all’università Bicocca e allo Iulm di Milano. Per raccontare un’esperienza che ha dell’unico Nori sta per realizzare per Chora Media un podcast che intitolerà Le due volte che sono morto. Intanto ne ha parlato a Torino Spiritualità, in un lungo, a volte divertente e a volte doloroso, monologo. Dicendo (più o meno) così.
«Nel 1999 e nel 2013 si è diffusa, per qualche settimana, la voce che io ero morto.
Nel 1999 mi conosceva pochissima gente, avevo appena pubblicato il mio primo romanzo e stava per uscire il secondo quando, una notte, sulla mia Citroën 2cavalli grigia e nera sono andato a sbattere contro un negozio. L’auto ha preso fuoco e io sono rimasto incastrato dentro; mi ha estratto un egiziano che abitava nel palazzo. Non ricordo niente di quei momenti. Se non che, quando mi sono svegliato all’ospedale Maggiore di Parma, mi sono alzato, mi sono incamminato per il corridoio, mi ha fermato un’infermiera e mi ha chiesto: “Dove va lei?”. “A casa” le ho risposto io. “No” mi ha detto l’infermiera, “lei a casa così non ci può andare”. A casa ci sono andato dopo 77 giorni, 5 dei quali, i primi, passati in prognosi riservata con ustioni di terzo grado. È stata l’esperienza più dolorosa della mia vita, nella quale, dopo averci litigato i primi tempi, mi sono completamente affidato a un chirurgo, che da allora è il mio chirurgo. Il professor Donatello Di Mascio mi ha operato sette volte e ogni volta mi diceva: “Tu tra un po’ ti dimentichi, che sei stato ustionato”. Io non ci credevo, invece aveva ragione, adesso non ci penso mai che mi sono ustionato, me ne ricordo solo quando ne parlo. In quei giorni di grande dolore mi ripetevo un verso di Pasternak ne Il dottor Živago: Vivere una vita non è attraversare un campo. Questo verso l’ho capito veramente in quel reparto grandi ustionati. Dopo qualche anno, ero al cinema con una ragazza, ho visto una scena con un poliziotto che tirava fuori una donna da un’auto che aveva preso fuoco, e sono scoppiato a piangere. Qualcosa dentro di me evidentemente si ricorda di quei momenti lì.
Nel 2013, a Bologna, attraversavo la strada fuori dalle strisce con in mano le pizze da portare a casa quando un motorino in contromano mi ha preso: ho battuto la testa, trauma cranico, hanno chiamato un’ambulanza, mi hanno ricoverato all’ospedale e sedato, sono stato cinque giorni in coma farmacologico. Dopo due giorni un’agenzia di stampa ha diffuso la notizia che ero tra la vita e la morte, più di là che di qua, e tutti hanno cominciato a parlare del fatto che io, praticamente, ero morto. Per me è stato il momento di massima notorietà, il picco della mia fama. La cosa più significativa che ho fatto, nella mia vita, è stata morire, mi vien da pensare ogni tanto. Quando sono uscito ho letto i messaggi che erano arrivati, è stato bello vedere quanta gente si era dispiaciuta per la mia morte.
A pensarci adesso non sono stati due brutti momenti, quelle due morti. Nel 1999 avevo pubblicato il mio primo romanzo Le cose non sono le cose e la mia degenza ha coinciso con l’uscita del mio secondo romanzo Bassotuba non c’è, che è andato benissimo, e con la manifestazione Ricercare a Reggio Emilia, una specie di Sanremo Giovani della letteratura. Un mio amico, Ivan Levrini, siccome io non potevo essere presente perché ero in ospedale, è andato a leggere il mio pezzo, davanti a molti editori. Una mia conoscente mi ha telefonato alla fine della lettura e mi ha fatto sentire l’applauso della sala e subito dopo mi hanno telefonato Paolo Repetti di Einaudi e Gabriella D’Ina di Feltrinelli che volevano che pubblicassi per loro. Così, in quei giorni in cui ero a pezzi sono diventato uno scrittore. Qualche tempo dopo, ricordo perfettamente, mi ha chiamato una ragazza che si chiama Francesca ed è laureata in storia dell’Unione Sovietica (io la chiamo Togliatti per il suo carattere e perché pensa di essere la migliore): voleva andare in Russia e mi ha chiesto se la potevo aiutare. Io l’ho aiutata, lei è andata in Russia, è tornata, e alla fine dell’anno abitavamo insieme a Bologna. Abbiamo poi fatto una bambina, Irma, che oggi ha 17 anni, e ci siamo lasciati nel 2005. Nel 2013, quando sono morto per la seconda volta, non stavamo insieme da otto anni; quando mi sono svegliato dal coma c’era lei, di fianco al mio letto, e io le ho detto una cosa che ha determinato il fatto che poi, all’inizio del 2014, siamo tornati insieme.
Nel podcast che farò voglio raccontare questi due episodi dei quali non mi ricordo molto: per forza, ero morto. Voglio cercare l’egiziano che mi ha estratto dalla macchina, voglio andare a trovare il professor Di Mascio e chiedergli se si ricorda le mie ustioni, voglio rintracciare il ragazzo che mi ha investito col motorino e il dottore che, contro la mia volontà, mi ha portato in ospedale, voglio rileggere i quotidiani che davano la notizia della mia morte, voglio chiedere a quelli che erano svegli cosa è successo in quei giorni in cui io dormivo con dei tubi infilati in gola. E voglio raccontare cos’è successo poi, quando sono uscito dall’ospedale e giravo in centro a Bologna, e c’era della gente che, a vedermi, si fermava impietrita come se avesse visto un fantasma».
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Paolo Nori ha scritto di questa sua esperienza in Grandi ustionati (Marcos y Marcos). E a Torino Spiritualità ha chiuso il suo monologo con la frase finale del libro:
“Ma la cosa più brutta, di cadere giù per le scale, non è quando prendi la botta che ti fa male, la cosa più brutta è il momento che te sei per aria, le gambe in avanti, ti rendi conto la botta, è questione di poco, sta per arrivare”.
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Se qualcuno avesse qualche informazione su ciò che è accaduto a Paolo Nori le due volte che è morto (e di cui lui non ricorda molto, ovviamente) può scrivere a duevoltechesonomorto@gmail.com
credit foto in apertura: Belén Sivori