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Allonsanfàn
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Serie di serial killer. The Jeffrey Dahmer Picture Show

1. Guardando su Netflix le dieci puntate dedicate al (vero) serial killer cannibale Jeffrey Dahmer, Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story, mi sono ricordato che ci fu un tempo in cui prendevamo molto sul serio i serial killer, almeno in libreria e al cinema.

Almeno lì, ma non solo. Perché poi avremmo giurato sulla rilevanza di un fenomeno reale che ispirava scrittori e cineasti. L’esistenza cioè di un deviante, un sociopatico di tipo particolare e in qualche modo attraente, mosso da oscure ragioni psicologiche e disinteressato al soldo. Spinto al crimine da abusi nell’infanzia, da una pessima introiezione dei valori familiari, da spinte sessuali disperatamente rivolte a impossibili soddisfazioni e improbabili possessi – che atroce metafora il consumismo e lo smembramento di corpi altrui! – l’omicida seriale pareva un prodotto impazzito del modello di vita dell’Occidente.

Comunque. Gli Stati Uniti – seppure nel costante sospetto di un’esagerazione nella conta a fini di spettacolo dei media – di contro al nostro miserevole Pacciani, vantavano centinaia di uccisori seriali a nome Ted Bundy e David Berkowitz, Dean Corll e Juan Vallejo Corona, per i quali venne usata per la prima volta la qualifica dai profiler FBI. Comunque, in America i serial killer esistevano: erano mostri trasfigurati da subito nelle chansons de gestes di cinema e letteratura di massa, finendo persino in sofisticata parodia, come quella che ne fece Bret Easton Ellis in American Psycho: Ellis con i serial killer giocò in maniera inventiva, poiché i suoi criminali iperrealisti non erano disperati straccioni, travet o outsider svalvolati come i prototipi reali, ma vestivano giacche Armani, andavano nei ristoranti cool, e cercavano di vivere tutto il glam di New York.

2. C’è dunque un ingente passato alle spalle di DahmerMonster: The Jeffrey Dahmer Story di Netflix, mini serie con protagonista uno sfigato Evan Peters (già Peter Maximoff/Quicksilver per la Marvel) dagli occhiali giganti e dai capelli lerci, “mosso” da un pool pilotato con Ian Brennan da Ryan Murphy, versatile showrunner – da American Horror Story a Ratched, dedicato alla perfida infermiera del Nido del Cuculo, passando per Glee. Tra i registi spicca Jennifer Lynch, figlia di sua maestà David; al suo fianco, i navigati Carl Franklin, Paris Barclay e Clement Virgo e, a sorpresa, un nome di culto del cosiddetto New Queer Cinema, Gregg Araki, cui tocca  l’episodio Lionel, dedicato al padre di Dahmer.

Il passato pesa, porta ai pensieri e alle polemiche sull’eterna speculazione di chi fa spettacolo, e per l’ennesima volta, con il più profondo orrore. Ma è la forma di Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story che sbaraglia molte obiezioni.

Per esempio. La scansione seriale è qui usata magistralmente, sviluppata con andirivieni temporali che offrono virtuosistiche riprese e completamenti delle diverse vicende, aprendosi su lunghi a parte e ingrandimenti di taglio quasi monografico.

È questa la forma scelta per raccontare, dosando la tensione – potrebbe altrimenti risultare insopportabile – la coazione a ripetere e a uccidere di un assassino “a puntate”, che in fondo è seriale pure lui. Nell’articolazione della storia e nel montaggio il nuovo Dahmer trova un suo senso, un quid pro quo con lo spettatore che vale il baratto del suo tempo libero di contro la riproposizione della solita “terribile storia”.

Siamo anche visivamente in un incubo – soprattutto quando veniamo schiacciati in disco e saune gay sotterranee e claustrofobiche o nell’acquario verde e arancione di cupi corridoi nelle case sporche di un quartiere nero di Milwaukee, Wisconsin – incubo che fa dimenticare gli infiniti docu di crime infestanti le nostre tv via cavo e compete con una cascata di altri illustri omicidi artistici – da Thomas Harris e Jeffery Daever in giù e in su, dal Silenzio degli Innocenti a Dexter.

3. “Sono così da sempre”. C’è uno stop di 9 anni tra il primo e il secondo delitto: “Ho cercato di essere un bravo ragazzo”. Detto con l’innocenza di chi ha un’anima più buia di un sottoscala in un film horror. È il tema principe, l’impossibilità di essere normale, che dovrebbe portarci addirittura – cosa quasi insultante, va detto, ma facente parte del pacchetto in offerta – a “comprendere” cioè, secondo l’etimo latino, ad abbracciare Jeffrey Dahmer. Il più pazzo e meticoloso, il più candido e feroce dei serial killer. Lui che avverte di “essere un uovo marcio”, un weirdo, e che entra all’inferno direttamente nei panni di un demonio senza che nessuno lo ascolti, né papà (filisteo e poi sempre ambiguo e egoista), né mamma (depressa e impasticcata), ma neanche gli altri, a scuola e nell’esercito. Forse il meglio per il ragazzo è la nonna bigotta: gli consiglia di spegnere le fiamme che lo divorano andando in chiesa. Ce n’è da pregare per lui, alcolista di birra che, in qualità di paramedico, sottrae e beve il sangue di un giovane. Lui che, attratto fin da piccolo dalle carogne di animali, finge di praticare per hobby la taxidermia, e trova sexy gli organi interni degli umani che seziona. Salvo rimanere attonito quando uno psicologo, a danni fatti, gli rivela che una simile perversione esiste e ha persino un nome scientifico… Ovunque stia, da libero e efferato omicida, Dahmer si porta appresso un odore insopportabile, quello della carne umana che si decompone, il suo marchio, la sua condanna a essere lui stesso un morto in vita.

Jennifer Lynch firma l’episodio numero 4, forse il più disturbante, quello della “scatola del bravo ragazzo”, magari perché Lynch jr aveva già diretto il non dimenticato film Boxing Helena… Ma sigla anche il quinto che conclude la permanenza di Dahmer dalla nonna e lo accompagna al soggiorno in carcere di un anno per adescamento di minore, carcere da cui esce con la sua apparente calma comatosa.

Nel sesto episodio, c’è il primo vero stacco dalla Dahmer story: va in scena la vita di una vittima, Tony, bambino nero e non udente, che seguiamo fino al 1991, sotto le luci di una disco gay, dove il ragazzo, aspirante modello, incontra prima un viscido fotografo poi Dahmer. I due, Tony e Jeffrey, si parleranno attraverso foglietti di bloc notes scritti dal ragazzo. La difficoltà di comunicare del serial killer si specchia per un attimo nella disabilità comunicativa di un altro maschio – un suo simile? – che diventa per lui un “good friend”. È uno dei più toccanti (o respingenti, irritanti) momenti di umanizzazione del mostro, che in uno dei periodici e frustranti check con padre e matrigna dice persino “I’m happy”. Il proseguio della impossibile “love story” metaforizzata in un gioco infantile di possesso, un Monopoli selvaggio giocato con piccole ossa come segnaposto, ci fa mettere i piedi sull’orlo dell’abisso.

Evan Peters con gli occhiali di Jeffrey Dahmer

4. Il fatto che Dahmer vada a caccia tra le minoranze etniche è stata una sorta di garanzia di impunità – la polizia non si impegna mai troppo, i giudici gli concedono inopinate seconde chance, e nella puntata numero 7 – un altro stacco – si fa vivo addirittura il reverendo Jackson in missione nella Milwaukee razzista, dove i cops possono addirittura riportare tra le mascelle del serial killer i ragazzi black o filippini che gli sono appena sfuggiti… Il reverendo fa visita a Mrs. Glenda Cleveland, la vicina di porta mai creduta, la quale come tutti denunciava di vivere nel fetore. “Mi si è rotto il congelatore, domani lo riparano” dice Dahmer. Domani, ma domani, c’è la cattura, lo shock di un Paese, il processo, la galera, 15 ergastoli.

Un’altra divagazione, ma questa più riuscita (gira Gregg Araki), nel capitolo 8, dedicato al padre: “Non sono stato io, sei stato tu”, dice al figlio assassino Lionel Dahmer, un untuoso e vigliacco Richard Jenkins, che però ammette di aver passato all’erede “metà dei miei geni” come grida alla compagna (una fin troppo posata e razionale Molly Ringwald) nella lunga notte in cui esplodono i sensi di colpa, oltre all’invasiva curiosità dei media.

Le ultime due ore della miniserie cedono in tensione per la politically correctness con cui si cerca di indennizzare i parenti delle vittime (che si sono incazzati lo stesso) e tutti i buonisti del mondo, anche se – tra punizioni mortali e divine, riflettendo sul concetto di colpa – prevedono un riuscito montaggio alternato con l’esecuzione di un celebre collega di Dahmer, John Wayne Gacy, il serial killer clown che ha ispirato Stephen King per It.

5. Ci eravamo posti domande sul senso di un’operazione simile anche dopo aver visto al cinema Ted Bundy – Fascino criminale (Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile), un film del 2019 diretto da Joe Berlinger. Il titolo originale aiuta a rispondere. Anche questo Dahmer è Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile e ribadisce anzi nella sua eccezionalità criminale tanto la persistenza di un orco da cui amiamo lasciarci spaventare quanto il fatto che oggi le serie esibiscono ottimi “risultati artistici nella narrativa per immagini” e, di più, possono accettare la sfida di fornire “la nuova frontiera della ricerca formale, e persino uno sguardo originalmente critico sul mondo contemporaneo” (così su un numero di Tirature 17, dedicato alla serialità in genere, interessante da ripescare).

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